Le grandi rivolte urbane che stanno scuotendo il mondo, dal Cairo a Hong Kong passando per Istanbul, rappresentano la dimostrazione più plastica di quanto il mondo stia cambiando senza che l’urbanistica tradizionale sia capace di fornire chiavi di lettura per comprendere le dimensioni e gli effetti di questo cambiamento. Da questa constatazione parte l’antropologo Franco La Cecla in “Contro l’Urbanistica” (Einaudi), che rimette in discussione cliché e luoghi comuni legati allo studio delle città.
L’urbanistica è una disciplina sempre piú inadeguata alla realtà delle città e del loro quotidiano farsi e disfarsi. I processi umani, economici, etnici e ambientali che si manifestano nei centri urbani sfuggono sistematicamente a piani e progetti, a mappe e logiche immobiliari. L’urbanistica continua a essere anacronisticamente legata all’architettura, con le sue ossessioni formalistiche e spettacolari. Le città, nel frattempo, crescono per spinte interne, non solo in slums e favelas, ma attraverso la richiesta di spazio pubblico che si manifesta nei grandi eventi di piazza, da Gezi Park a Occupy Wall Street. Mai come oggi la democrazia si gioca nello spazio pubblico, nelle strade, sui marciapiedi. Urbanistica e pianificazione sono invece ancora prigioniere di una visione obsoleta, che mitizza la passività a scapito delle esigenze del reale. Serve una nuova scienza delle città, capace di garantire, in primo luogo, una vita dignitosa e decorosa per tutti. Un’urbanistica da rifondare, per rispondere al diritto a una quotidianità ancora del tutto ignorata.
Legando a doppio filo il racconto delle città ad una visione antropologica capace di vedere gli spazi come luoghi di vita prima che terreno di sperimentazione per archistar e tecnici della smart city, La Cecla alterna visioni ed esperienze personali in città più o meno inconsueto (frutto delle osservazioni compiute di persona negli ultimi anni) ad una riflessione teorica sul fallimento di un’urbanistica vista come tecnica prima che come scienza al servizio delle persone.”Invece di conoscerla, sostiene di anticiparla con le proprie utopie estetiche” afferma La Cecla, rimettendo in discussione non solo il ruolo dell’urbanistica nel progettare le città del futuro ma anche di architetti e urbanisti di svolgere tale ruolo con spirito civico e nuove forme rispetto al passato.
Non sta però nel singolo livello urbano l’errore, secondo l’autore, ma in un’impostazione dall’alto che vede addirittura enti insospettabili come Un-Habitat puntare tutta l’attenzione sulla prosperità di un mondo tutto urbano senza minimamente metterlo in relazione con quel sistema di reti e di attenzione alle persone che solo un rinnovato rapporto tra discipline, in particolare con l’antropologia, potrebbe portare a vantaggio non solo dell’urbanistica ma delle città stesse.
Uscire dalle categorie dell’urbanistica glamour, meno smart city e più città delle persone: La Cecla chiama a raccolta le energie vive del cambiamento per ricostruire senso di comunità, per dare senso alle forme di partecipazione civica e creare città più inclusive e sostenibili. L’autore cita il cibo di strada come strumento di socialità ma anche mezzo ancestrale per recuperare quel rapporto tra residenti e luoghi di vita cementificato nei secoli proprio da quella che è l’occasione di socialità per eccellenza. Ma più in generale è l’attenzione alle persone che caratterizza una nuova visione di città che La Cecla rimarca in opposizione a quella vuota e tecnicistica che ha animato il dibattito in questi anni: dopo l’invettiva contro le archistar di “Contro l’architettura” un ulteriore invito a ripensare al futuro dei nostri luoghi di vita attraverso un cambio di prospettiva, capace non di demolire certezza quanto di fare ordine tra gli elementi chiave del dibattito urbano contemporaneo.
> Ascolta l’intervista all’autore nel programma “Fahrenheit” di Radio3
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