La gente che abita le grandi città sta vivendo un singolare momento: da una parte si trova sempre più schiacciata da decisioni prepotenti, corporazioni, banche, immobiliari a cui le amministrazioni si piegano se non addirittura fanno affari insieme. Dall’altro lato e forse proprio per questo c’è un po’ dappertutto una ripresa di attività spontanee e collettive negli spazi pubblici. Come ad esempio le parate giocose del “Bread and Puppet Theater” nel Lower East Side di New York, che accompagnano proteste o sottolineano il valore dei community garden come strumento di riappropriazione degli spazi di quartiere. Il Bread and Puppet, fondato cinquant’anni fa, è una mescolanza di improvvisazione e arte di strada, di ironia e carnevale, di protesta e identità: ed è un piacere vedere come i bambini cinesi o portoricani si mescolano ai volontari e agli artisti e musicisti. Ma la stessa voglia è quella che fa sì che le proteste a Istanbul, per difendere il parco Gezi e tutti gli spazi informali della città, non si siano arrestate negli ultimi sei mesi.
E se si passa ad altri luoghi, dall’Egitto di piazza Tahrir alle manifestazioni nelle città del Brasile, ci si rende conto che la cifra nuova di questi avvenimenti sta proprio nell’importanza data allo spazio urbano. È incredibile che un luogo privo di qualità come piazza Tahrir sia diventato il cemento che ha messo insieme le anime più disparate e a volte opposte del Cairo e continui a essere il luogo dove si gioca il destino dell’Egitto. E la stessa cosa è avvenuta a Istanbul: il parco Gezi ha fuso le compagini più disparate dell’opposizione turca all’omologazione e al conservativismo. La stessa aria spira a New York, Rio o San Paolo, ma anche a Bombay o Calcutta.
Sono le piazze, i luoghi abbandonati, le strade, i marciapiedi i simboli tangibili di una socialità che non si accontenta di essere astratta e virtuale, di essere Facebook o Twitter, ma che vuole riprendersi la città per poter costruire ed esprimere la forza della convivenza. È singolare che ciò avvenga proprio adesso che la fisicità della città e dei suoi abitanti è negata da un’ideologia post-liberale che vorrebbe che tutti diventassimo una cifra di Google. Invece sono i corpi che riemergono, la loro forte presenza. Non è un caso che in prima linea in questi processi di riappropriazione vi siano artisti, attori, danzatori, marionettisti, mimi, musicisti; tutta gente che dello spazio fa la propria professione. È come se ci fosse una riscoperta generale del “qui e ora”.
Autore articolo: Franco La Cecla
Articolo pubblicato su “Luoghi dell’Infinito”, Gennaio 2014
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