Parte il percorso partecipato per la costituzione dell’Ecomuseo di Francavilla Fontana (Br)

Il prossimo 12 Febbraio si avvierà ufficialmente il percorso che condurrà alla costituzione dell’Ecomuseo della Città di Francavilla Fontana, in provincia di Brindisi.

A differenza dei tradizionali musei, che spesso si presentano come luoghi chiusi che custodiscono testimonianze del passato, l’ecomuseo si configura come uno spazio attivo e diffuso nella città che ha lo scopo di promuovere l’identità collettiva e il patrimonio culturale, ambientale e paesaggistico della comunità.
Grazie alla partecipazione della cittadinanza, dei soggetti pubblici e privati è possibile avviare un processo di riscoperta e valorizzazione della cultura materiale e immateriale, focalizzando in particolare l’attenzione nel rapporto tra ambiente naturale e antropizzato.

Il processo partecipativo avrà la sua naturale collocazione nel laboratorio ecomuseale, ribattezzato dai promotori dell’iniziativa “Aiò!”, e si porrà come primo obiettivo la definizione di una mappa di comunità che metterà in evidenza le percezioni dei cittadini in materia di patrimonio, paesaggio e conoscenze.

“Avviamo un percorso inedito per la nostra Città – dichiara l’Assessore alle Attività Produttive Domenico Magliola – la definizione della mappa di comunità, primo atto verso l’ecomuseo, rappresenta un passo decisivo per comprendere le dinamiche consolidate, percepite e in fase di gestazione presenti nella nostra società cittadina. Non si tratta semplicemente di salvaguardare il patrimonio esistente, ma di orientare lo sviluppo futuro in un’ottica di sostenibilità ambientale, economica e sociale.”

Le attività del laboratorio ecomuseale saranno possibili grazie al finanziamento regionale di 20 mila euro ottenuto dal bando “Puglia Partecipa” alla fine del 2019.

Il primo appuntamento per la presentazione del laboratorio ecomuseale è per Venerdì 12 febbraio alle ore 17.30 in diretta streaming dalla pagina facebook del progetto “Aiò!”.

Interverranno il Sindaco Antonello Denuzzo, l’Assessore alle Attività Produttive Domenico Magliola, l’Arch. Gabriella Verardi, Direttore tecnico di Interplan Architettura e Design, e Gabriele Fanelli di Studio Lampo.

Aiò – Il laboratorio ecomuseale di Francavilla Fontana” è un progetto a cura dell’Amministrazione Comunale di Francavilla Fontana nell’ambito del bando regionale “Puglia Partecipa”. È supportato da CNA Brindisi, DUC di Francavilla Fontana, GAL Terra dei Messapi, Pro Loco Francavilla Fontana, Fare Verde Puglia – Francavilla Fontana, Consorzio Imprese Riunite di Francavilla Fontana, Associazione Armonie, UPuglia srls, A.P.S Play your Place.

La vita possibile. Storie di lealtà. Lorenzo Scaraggi intervistato da Carla Saracino

Viaggiare è sempre un andare incontro a qualcuno o a qualcosa. Anche il mezzo con cui si decide di farlo è importante. Perché utilizzare un vecchio camper dell’82 di nome Vostok?

Perché sono un uomo nostalgico! Sai perché l’ho chiamato così? Vostok era il nome della navicella spaziale usata da Jurij Gagarin. In un mondo in cui tutti vanno con mezzi ultraveloci, viaggiare su un veicolo come quello è un modo per riappropriarsi del senso del tempo e dello spazio. Il rapporto con il Vostok è materico: sperare che non mi abbandoni da un momento all’altro, avere la puzza costante di olio sulle mani, tutto ciò riconduce a una dimensione lenta del viaggio. Lenta relativamente alla velocità con cui accadono oggi le cose. È pure metafora del mio approccio graduale ma anche deciso alle storie.

Saper raccontare storie è in fondo una disposizione all’ascolto. Come nasce il dialogo con le persone che incontri? Con quali forme di intesa e fiducia reciproche avviene la costruzione del confronto?

Se si guarda alle cose dal punto di vista dell’intervistatore “a tutti i costi”, non è facile conquistare la fiducia delle persone. Mi spiego: nessuno è tenuto a raccontarti di sé, ma c’è una linea sottile superata la quale si può parlare a se stessi. Quello è il delicato confine tra il saper essere empatici o meno. Quando ho girato Madre Nostra, ho incontrato Alfonso, una delle persone in apparenza più difficili. Per i primi tre giorni io e i miei due operatori non abbiamo messo mano alle telecamere. La cosa più importante per me era far capire ad Alfonso che avrei parlato con lui solo se lui avesse avuto voglia di farlo. Non avevo la fretta o la foga di portarmi per forza l’intervista a casa. Durante i primi tre giorni abbiamo chiacchierato a telecamere spente. Sentivo che le sue risposte sarebbero giunte col tempo e con la confidenza necessari. Lentamente siamo riusciti ad entrare in una dimensione di naturale familiarità, così che usare la telecamera a quel punto è stato spontaneo. Questa progressione che cattura gradatamente la fiducia è il segreto che mi ha accompagnato anche durante le esperienze in zone di guerra. In passato sono stato in Iraq, nella striscia di Gaza, ho fatto dei reportage nei campi profughi della ex Jugoslavia… in quelle occasioni non potevo pensare di entrare nella dimensione intima delle persone con fare invasivo o superficialità. Eppure c’era un momento preciso nel quale sentivo di poter scattare una foto perché tra me e gli altri si creava un vero momento di intesa.
La cosa più importante è sempre quella: far capire che sei lì per ascoltare ed entrare in un dialogo sincero con gli altri. Del resto questo è anche l’approccio del viaggiatore, non aspettarsi mai niente ed essere rispettosi degli incontri… Perché dovremmo salvaguardare i boschi e non la delicatezza degli esseri umani? Entrare con discrezione nella sfera interiore delle persone è importante tanto quanto non danneggiare la natura.

A questo proposito, come fai durante i tuoi innumerevoli viaggi a rompere quella naturale diffidenza che forse insorge nell’incontro con l’altro?

Scherzando, dico sempre che mi affido al Dio del viaggio. Non sono credente nel senso comune del termine, ma mi colpisce molto un passo del Vangelo: “Siate puri come le colombe e prudenti come i serpenti”. In effetti, mentre viaggi, non devi mai avere paura di essere te stesso, eppure devi restare vigile, usare quattro occhi, due davanti e due dietro. Devi sempre prevenire e pensare a tutte le eventualità, le vie di fuga, le possibili soluzioni a qualche problema, ma il fatto di dover restare guardinghi non esclude il poter essere puri e aperti di fronte alla scoperta. Quando mi chiedono se ho paura ribatto sempre provocatoriamente con una domanda: perché gli altri non dovrebbero avere paura di me?

Madre Nostra è il titolo del tuo meraviglioso documentario, prodotto da Fondazione con il Sud e Apulia Film Commission. Racconti di una Puglia lontana dalle narrazioni social e turistiche. La tua è una Puglia ferita dall’illegalità che prova a rinascere attraverso l’agricoltura sociale. Fai visita a cooperative, comunità di recupero della regione dove il lavoro nei campi è un “mezzo magico” che serve a rinsaldare rapporti di comunità e di civiltà. Dal trullo sociale di San Michele Salentino, centro educativo e di aggregazione, alla Fattoria dei Primi di Valenzano che gestisce 26 ettari di terra confiscata alla mafia, passando per gli orti in gestione e i laboratori di legalità: in fondo, si tratta di un’agricoltura profondamente simbolica…

Sì, però non è prettamente simbolica. Nel bando che avevo vinto si chiedeva di parlare del terzo settore, quello del volontariato, che sta diventando realmente impresa con ricadute benefiche in ambito sociale. Il terzo settore si sta evolvendo perché stanno mutando le leggi. A livello governativo si sta puntando alla sua progressione e al suo miglioramento, di conseguenza le iniziative che nascono danno concretamente da mangiare a chi vi partecipa e alle loro famiglie.
L’agricoltura o le attività che vengono praticate dalle cooperative creano concrete occasioni di lavoro e sono vettori di opportunità per chi vuole dare una svolta alla propria vita. Spesso hanno a che fare con programmi a cui alcune persone ricorrono per non dover stare in carcere. Certo, non tutti vogliono realmente essere redenti o affrancarsi da un passato difficile, ma la parte migliore riesce ad incamminarsi su una strada di rinnovata consapevolezza e ritrovata identità.
Poi, l’agricoltura ha sempre fatto parte del nostro modo di pensare. Il resoconto della storia dell’umanità si fa sul lungo termine. Dopo la seconda guerra mondiale, abbiamo creduto illusoriamente di poterci allontanare dalla terra, diventare pezzi di un ingranaggio della fabbrica, ma in Puglia, ad esempio, nasciamo contadini, lo siamo sempre stati profondamente per cultura e tradizione. In fondo non ci siamo mai allontanati dal rapporto con il territorio e attualmente c’è anche un modo diverso di lavorare nei campi: ci sono contadini che hanno un’intelligenza straordinaria mirata alla valorizzazione non solo dei semi che piantano ma pure delle persone che coinvolgono.

Mi hanno colpito nel documentario la saggezza naturale di Angelo Santoro e la battuta schietta di Giuseppe Mennuni che dice: “Se la vita vuoi cambiarla, la cambi”. In tempi di sfrenati individualismi e sproloqui, ti chiedo il conforto di una condivisione o di una speranza. La chiave di rinnovamento sta forse in due parole: semplicità e comunità?

Raramente ho visto Angelo Santoro arrabbiato, lui sorride sempre. Anche quando è preoccupato, non manca di farti qualche battuta. Combatte tra l’essere contadino, imprenditore e gestore di una cooperativa, eppure è sempre felice. Giuseppe, che ha avuto un passato molto complicato e gravoso, mantiene una straordinaria gratitudine rispetto alla vita. Si commuove perfino nell’intervista. Oggi è felice mentre lavora nei campi o passa del tempo col suo bambino.
Questo per dire che io guarderei la cosa da un punto di vista rovesciato. Posto che queste persone vivono la vita come tutti e con le difficoltà comuni a tutti, non potrebbe essere che sbagliamo noi a focalizzarci su valori errati? Forse a volte basterebbe mettersi nei panni degli altri: noi che cerchiamo rivelazioni nella semplicità altrui, dovremmo probabilmente pensare che il vero benessere sta nel non sovraccaricarsi di cose inutili.

Forse un certo desiderio di semplicità o nostalgia per l’anteriore sono reazioni naturali all’iper-informazione a cui siamo perennemente sottoposti e che satura il nostro quotidiano…

E allora viene da chiedersi se gli stimoli che riceviamo siano proprio necessari. Se non fosse per lavoro, io stesso mi priverei volentieri dei contatti mediatici, ma è pur vera una cosa: il nostro libero arbitrio ci offre la possibilità di scindere, selezionare e scegliere tra le varie sollecitazioni…

L’agricoltura insegna i tempi della cura e della pazienza. Coltivare la terra equivale a coltivare se stessi imparando a vivere con gli altri, nel rispetto dei ritmi di ognuno e delle diversità. Madre Nostra è la storia di un incontro con chi “fa” la Puglia e, aggiungerei, il Meridione. Visto in questa ottica, il tuo lavoro esula dai soli confini regionali?

Sicuramente quelle di Madre Nostra sono storie che potrebbero accadere dappertutto. Eppure è importante ribadire la loro specifica connotazione geografica visto che la mafia è ovunque ma anche in luoghi specifici. Mentre preparavo il documentario, parlavo agli amici dei temi che stavo affrontando, agricoltura sociale e terre confiscate alla mafia. A quel punto erano tutti certi che stessi girando in Sicilia, perché nell’immaginario collettivo la mafia esiste solo in quella regione ed è legata ai soliti stereotipi. E invece nell’operazione Diomede, quella che portò al sequestro dei terreni gestiti da Angelo Santoro, furono arrestate novanta persone, perché la capacità di penetrazione della mafia nel tessuto sociale è potente e invisibile. La mafia gestisce molte delle situazioni che ci circondano. Leggevo di organizzazioni mafiose che in questo momento pandemico stanno investendo cinquecento milioni di euro per acquistare tutto l’acquistabile. Purtroppo sono tra di noi, formano un antistato invisibile che riesce ad infiltrarsi ovunque, persino nei luoghi della quotidianità. Questo per dire che possono essere dappertutto ma anche dietro casa nostra. Nessuno di noi deve avere più la possibilità di autoscagionarsi e dire che non ne sa nulla. Grazie all’informazione (e in questo senso i mezzi di comunicazione ricoprono un ruolo utile), tutti possono capire e approfondire criticamente le situazioni.

Nella tua vita di giornalista, regista e soprattutto viaggiatore, quanto contano gli sforzi per arrivare alla meta? Esiste una “fatica della scoperta”?

Certo, esiste. Io ho voluto fortemente trasformare il Vostok nella mia sede di lavoro, ma questo proposito mi è costato tantissimo. C’era chi, pensando al mio peregrinare per lavoro, mi invidiava ipotizzando spostamenti e narrazioni privi di sacrificio e sforzi, “Ah e chi non vorrebbe ascoltare storie in giro per il mondo?”…dicevano. “Fallo tu”, rispondevo allora io. Ho a che fare con grandi sacrifici che impegnano energie di vario tipo e tolgono tempo al resto, soprattutto agli affetti. Ho certamente costruito il mio lavoro in modo da adattarlo ai desideri e alle passioni, ma questo ha comportato rinunce e grandi fatiche. Da tempo inseguo ritmi di lavoro incessanti e non ho un giorno libero, perché devo rispettare le commissioni e le aspettative degli altri.

Quali sono stati, infine, i viaggi che ti hanno lasciato il segno e da cui hai ereditato nuova linfa per continuare ad andare?

Dal giro d’Europa in solitaria nel 2016 al progetto Lungomare Italia nel 2018 fino a quello di quest’anno, Puglia fuori rotta, un viaggio di 3000 km alla scoperta delle meraviglie più nascoste della mia regione, tutte esperienze meravigliose e lavori di storytelling che sono stati promossi e finanziati strada facendo da preziosi sostegni e aiuti grazie ai quali ho avuto la possibilità di diffondere la bellezza del patrimonio culturale, etnico e storico delle terre visitate.

Autore: Carla Saracino
Articolo pubblicato su: Monolith Volume

Poetica e verità dei luoghi abbandonati. Intervista di Carla Saracino a Vito Teti

Leggo Il senso dei luoghi, Memoria e Storia dei paesi abbandonati, uno dei suoi libri più noti, edito da Donzelli. Lopera è complessa, una documentata mole di pagine che funge contemporaneamente da archivio storico, scavo e memoria, approdo sentimentale, ricerca di una poetica dei luoghi. Dove e quando nasce questo desiderio di esplorazione che sulla pagina disegna la forma del suo sguardo?

La prima idea di realizzare qualcosa di compiuto sulle rovine, sui ruderi, ma soprattutto sui paesi abbandonati nacque anni fa, allimbrunire, in occasione di una visita alla vecchia Noto, distrutta dal terremoto del 1693. Quella sera avvertii un misto di sensazioni, tra la fascinazione, la paura, il senso del tempo che passa, insieme al presentimento che stesse per accadere qualcosa di misterioso. In seguito a questo episodio, decisi di mettere ordine a una serie di materiali, documenti, appunti che avevo iniziato ad elaborare sul tema dei paesi abbandonati già dallinizio degli anni ottanta. A quei tempi, destate, si tenevano spesso delle feste tra le rovine degli antichi abitati. Persone che vi avevano vissuto e che poi se ne erano allontanate si riunivano in quei luoghi, magari insieme a figli, ai nipoti, alle nuove generazioni, per ricostruire un dialogo con il paese dorigine, intrecciando un legame affettivo tra la nostalgia e la consapevolezza che nulla sarebbe stato più come una volta. Questo pellegrinaggio festoso tra le rovine e questa sensibilità popolare per quello che era stato e non cera più mi sembravano un fatto inedito nella cultura delsud e mi colpivano moltissimo. Da quel momento ho iniziato a seguire tutte le feste che si svolgevano nei paesi abbandonati tra la Calabria e il resto dellItalia meridionale costruendomi una sorta di mappa e concentrandomi molto sulle storie di vita delle persone.

Mi affascina il culto della festa fugace che si consuma nellarco di poche ore tra i ruderi. La natura effimera di questi eventi nascondeva forse la speranza di dare, per un movimento contrario,  permanenza e continuità al ricordo del luogo amato, conservandolo per un lungo tempo, anche dopo lo spegnersi dei bagliori…

Sì, proprio così. Tornare per celebrare un rito significava in qualche modo risacralizzare quel luogo, rifondarlo. Prendere parte allevento, mangiare lì equivaleva a un banchettare con i morti, a livello simbolico ristabilire un contatto tra quelli che non cerano più e quelli che erano andati via, entrambi diversamente defunti. Ed era molto interessante osservare quanto, almeno per un attimo e nella fugacità di un tempo breve, quel luogo rinascesse negli occhi di chi era andato via o di chi era alla ricerca di un senso ulteriore, di un altrove che si era forse lasciato alle spalle.

C’è poi il caso dei paesi doppi della Calabria, nati per sostituire quelli distrutti a seguito di alluvioni o terremoti: potremmo definirli non luoghi, posti senza anima, privi inizialmente dei tradizionali punti di riferimento. Anche a causa della loro identità ricostruita artificialmente, molte persone desideravano occasionalmente radunarsi nel luogo dorigine, quasi a segnalare una critica o linsoddisfazione verso i loro nuovi centri abitati.

Ci sono anche alcuni elementi di storia autobiografica legati alle rovine che hanno condizionato e diretto i miei studi. Da bambino, negli anni cinquanta, ho visto progressivamente spopolarsi un mondo che oggi non c’è più. In molti libri ho scritto delle fughe continue di quel tempo, di partenze di massa vissute come dei funerali, di case che chiudevano irrimediabilmente le loro porte. Inizialmente, rispetto ai miei coetanei che se ne andavano, mi sentivo un superstite, un sopravvissuto, ma ero convinto che tutti sarebbero tornati, che le vie si sarebbero riempite di nuova vita. Mi sbagliavo. Lentamente e progressivamente scoprii che quanto era accaduto era avvenuto per sempre, che gli amici che tornavano lo facevano ormai, se pure, solo per lestate e che si era creata una frattura definitiva. Per loro non si sarebbe più ricostruito il passato.

Ho assistito allo svuotamento del mio paese. Nella strada in cui vivo si facevano delle allegre tavolate che ancora ricordo, oggi la stessa via è deserta, abitata da pochissime persone, perlopiù anziane. Del resto, è una situazione comune a tutto lAppennino calabrese e italiano…

Di fronte a tutto questo ci si sente in esilio. Restare allora diventa una paradossale forma di spaesamento, di viaggio estremo. Si è costretti ad assistere a grandi stravolgimenti, pur rimanendo fermi in un posto.

È cambiato anche il rapporto con la natura circostante e i campi. Solo gruppi marginali di appassionati che riscoprono la terra o che si inventano nuovi mestieri stabiliscono un legame con lesterno del paese, le campagne…

Un tempo il rapporto coi luoghi era carico di significato. La relazione tra la terra e lumano si spingeva ben oltre oltre unidea di opportunismo. Cerano legami silenziosi, fatti di intenti anche sentimentali, religiosi, simbolici, ritualistici.

Sì, a questo proposito mi ritorna in mente un posto familiare in cui mi sono fermato laltra sera, un luogo pieno di pioppi giganteschi. In un attimo sono stato colpito dalla loro ombra: lunga, lontana nel tempo e nello spazio. Quellombra non parlava più al presente, era la stessa di tanti anni fa, quando da ragazzo mi fermavo lì dopo il mare per rinfrescarmi o per chiacchierare col mio amico Vincenzo tornato dal Canada.  

I luoghi insomma sono una sedimentazione di storie, memorie, vissuti che ti fanno pensare e ripensare alla vita. Questa dimensione verticale dellesistenza mi pare si stia perdendo. Certamente la memoria o il ricordare troppo non devono cadere nei facili sentimentalismi, ma avvertire una nostalgia produttiva, affrontare il dolore verso il passato scomparso cercando di trasformarlo nel presente per ritrovare la strada, questo sì che può diventare fonte di energia.

Forse è anche giunto il momento di interrogarsi sul perché abbiamo superato il limite e se non sia il caso di fermarsi un po’ per guardarsi indietro e recuperare un passato dalle potenzialità ancora inespresse.

paesi abbandonati sono animati da un perenne stato di imminenza in cui agiscono testimonianza stratificata, svelamento dei sensi e insieme ricostruzione storica. Ma sono anche una soglia, varcata la quale una lingua immaginifica inizia ad esprimersi. È allora che realtà e mito si uniscono, generano unoralità invisibile, che investe gli spazi e li potenzia. È lo stato della rovina ad amplificare questo tipo di narrazione?

Certamente. Delle grandi rovine, le più famose e note, abbiamo informazioni, storie documentate e accertate. Delle piccole rovine, invece – penso alle case di pietra ricoperte dal fogliame, avvolte dagli alberi di fico – disponiamo di uno spazio inedito, ampio, da cui trarre un inventario di immagini nuovamente narranti. Questa opportunità di creazione diventa occasione per riflettere sul proprio altrove. In questo senso la rovina non si fa mitologia, ma mito di un tempo di cui possiamo sentire nostalgia. La rovina diventa mito di un tempo fuori dal tempo.

Le storie, come la poesia, forse hanno bisogno di unestetica dellassenza per nascere. Allora lappena abbozzato o il sottratto della rovina agiscono nellimmaginazione delle persone, rassicurandole allo stesso tempo…

Sì, le rovine affascinano per sottrazione, allo stesso tempo spingono ad addizionare. Da un vuoto nascono tanti pieni possibili. In questo senso il rapporto con la rovina deve diventare propositivo e fondativo.

I paesi del Mediterraneo, compresi quelli della sua Calabria, sono scanditi da uno stile di vita che risente del passato, identificato e rievocato in una forma in cui ancora oggi le nuove generazioni si riconoscono. Talvolta, però, la sua risonanza è eccessiva, rischia di franare in una nostalgia per lanteriore e provocare una stagnazione sociale. Come si possono conciliare laffetto per i luoghi e la cultura del presente?

Laffetto per i luoghi ispira un tempo diverso, verticale, non ordinario e non omologato. Proprio per questo le nuove generazioni possono recuperare ciò che gli antenati hanno lasciato: scrigni di saperi e sapienza da custodire e rielaborare nel presente non nella direzione di un collezionismo passivo ma allinsegna di un gioco” da riorganizzare con i materiali ereditati, al fine di scoprire un nuovo senso della comunità, tenendo conto di tutti i cambiamenti che si sono verificati nel frattempo. Si può fare insomma un buon uso della nostalgia: accarezzarla con affetto, amarla nella misura in cui ti permette di interpretare il presente.

Si tende a scegliere un luogo per la vita, eppure lunicità di questa scelta può frastornare e non appagare. Può accadere, allora, di vagare come nomadi tra patrie e patrie. Ma è possibile dilapidare la propria identità dividendosi tra luoghi e luoghi? Forse lessere umano ha bisogno di ununica casa da cui poi guardare alle altre…

Non penso che si possano avere molteplici identità o posti di riferimento. Io credo alvaraniamente, che ogni inveramento ed ogni cosa tra le più importanti dellesistenza inizino ad apparire già nei primi anni dellinfanzia. Penso che il luogo di appartenenza ineludibile sia assolutamente quello in cui sei nato e cresciuto, quello in cui hai mangiato per la prima volta o ti sei innamorato per la prima volta. Si può fuggire dal luogo dorigine, ma alla fine del percorso comprendi quanto la strada compiuta ti abbia riportato al punto di partenza.

Certamente si può abitare bene in altri luoghi, ma forse ciò dipende dallavere un punto di riferimento sempre presente nella mente o, come diceva Ernesto De Martino parlando di Albino Pierro, un villaggio nella memoria. A questo proposito mi ha colpito molto la vicenda di Cavallerizzo, un paese calabro-arbëreshe, franato nel 2005 senza mietere vittime fortunatamente. A seguito di quello sfortunato evento, molti dei suoi abitanti espressero la volontà di spostarsi, altri di restare. Da subito si creò una prima frattura tra diversi modi di leggere e interpretare criticamente le mutazioni del luogo. A un certo punto  fui impressionato dal fatto che tra chi non voleva ci si spostasse cerano gli emigrati, quelli che da decenni vivevano ormai in Inghilterra o negli Stati Uniti, che non avevano più casa a Cavallerizzo e che non sarebbero di certo più tornati. Cosa era accaduto a queste persone? Probabilmente lidea di perdere il loro luogo di origine li destabilizzava, li metteva in crisi, faceva loro perdere un orientamento rassicurante che, seppur idealmente, era di conforto alla distanza geografica.

Questo conferma lidea che avere delle radici, custodirle nella memoria o anche solo sapere di avere la possibilità di ritrovarle fa parte di una naturale e comprensibile destinazione umana.

Nel suo libro racconta la storia di una donna di Melito rapita dai Turchi. Leggende intorno a giovani strappate alla propria casa e condotte in luoghi esotici ritornano in molti paesi del sud. Letto trasversalmente, questo ratto drammatico attinge alla fonte di una poetica dellimmagine a mio avviso potentissima: la costrizione e lallontanamento dalla tenera estasi della giovinezza preparano al nostos che riaffiora su una fisionomia ormai rovinata dal tempo. Non sono forse gli estremi che, tra nascita e morte, esprimono il senso della vita?

Il motivo ricorrente del ratto costituisce un terrore storico non solo per le popolazioni dellItalia meridionale, ma anche per quelle di tutta lItalia costiera. La paura dei Turchi resta fino agli inizi dellOttocento. Molti stornelli e canzoni popolari ce lo ricordano.

Mi ritorna alla mente una storia raccontata da Corrado Alvaro a proposito di una nobildonna bellissima, rimasta vedova, che per non finire in mano ai Turchi si suicida o, ancora, la leggenda di Uluccialì, bambino rapito dai Turchi che diventerà capo della loro flotta e quando tornerà dalla madre sarà rinnegato perché reo di di avere abbracciato la fede nemica…

In queste narrazioni di vita rubata, cancellata o sospesa, si osserva un momento di rigenerazione e di rifondazione che racconta la dialettica tra la vita e la morte e che diviene centrale nella trasmissione della cultura orale popolare.

Queste storie, così evocative, sembrano suggerire che per rifondare un posto forse bisogna allontanarsene o lasciarsi sottoporre alle violenze” della vita. I luoghi chiedono anche questo? Di essere, cioè, rivissuti alla luce di un cammino di formazione?

Sicuramente nella nostra cultura sono innumerevoli i richiami ai temi delloscurità, alle figure dellignoto, alle madonne nere e al sottoterra. Del resto, anche nelle società tradizionali le persone subivano dei riti di iniziazione fatti di violenze fisiche e psichiche terribili per garantirsi una strada di crescita e introduzione alladultità. In qualche modo, questi passaggi, autoperpretati o indotti, reali o leggendari, permettevano di istituire una scrittura archetipica delle tradizioni e diventare stili di pensiero e di vita.

ILEstate a Algeri, Albert Camus scrive che segno della giovinezza è forse una magnifica vocazione alle facili felicità” e che a Belcourt ci si sposa giovani. Si comincia a lavorare molto presto e si esaurisce in dieci anni lesperienza di una vita umana. Scrive anche che certi paesi del Mediterraneo sono generosi di spreco, una profusione di sensi che in qualche modo sazia precocemente e toglie tutto subito. È forse una riflessione accomunabile ai paesi del nostro Meridione? Esiste, secondo lei, uneccedenza espressiva che i luoghi o i paesaggi comunicano e che giunge ad influenzare i ritmi della vita stessa?

Credo che leccesso di rapporti che viviamo nei paesi del Mediterraneo non esista nelle grandi città. Personalmente conosco moltissime persone nel mio piccolo paese calabrese; partecipo a numerosi matrimoni, funerali, occasioni di aggregazione, scambio, confronto; prendo parte alla vita amministrativa e pubblica. Questa intensità di azioni e sentimenti non esiste nei grossi centri abitati.

Gli abitanti del Mediterraneo sono eccessivi, persino nei mutamenti di umore o nei legami amorosi. Talvolta i dialoghi con le persone conosciute non si interrompono mai, perdurano negli anni, anche quando non c’è più occasione di vedersi dal vero. Una dialettica invisibile continua ad agire nel tempo e nello spazio: in questo senso, i tramonti lunghi, il mare e la sua costa, le distese di alberi influiscono, sono degli anelli di congiunzione, riportano a galla sapori, odori, nutrimenti dello spirito che non smettono di riecheggiare e di interrogare.

Come lei stesso scrive, esiste una nostalgia dellaltrove: quella di chi non parte e vede gli altri partire. Un punto di vista diverso, altrettanto carico di significato. Cosa significa oggi restare?

La nostalgia dellaltrove lho vissuta sulla mia pelle, da bambino, quando vedevo i compagni partire per il Canada e mi sentivo quasi deprivato di quellandare. Infatti, idealmente partivo con loro. Mio padre, che lavorava a Toronto, lho visto per la prima volta a otto anni. Prima lo conoscevo solo attraverso delle foto. Toronto è stata per molto tempo una terra di continuità col mio paese, quellaltrove che immaginavo e dentro il quale mi perdevo.

Nostalgia dellaltrove era anche nelle donne con cui sono cresciuto, nelle storie che mi raccontavano. Grazie a loro sono stato iniziato al fantastico, al mistero, al magico.

Alla luce di tutto questo, mi verrebbe da osservare che la nostalgia più tremenda è forse quella di chi rimane e aspetta. È lattesa di Penelope o è stata quella di mia madre che ha dovuto sopperire allassenza di suo marito, riorganizzando nuove strategie di vita, sostituendosi alla figura maschile.  In questa lacerazione di mondi, in questa frammentazione o nel determinarsi di schegge e segmenti resta più spaesato e fuori luogo chi non va via. Il mio restare, che ho definito nel tempo restanza, ha a che fare con altre parole, come lontananza, erranza, ma è pronunciato con riferimento alla dinamicità e alla mobilità, a qualcosa che sta avvenendo. Restanza non è essere rimasto ma è la costruzione consapevole e responsabile del restare. Restare significa trasformare e cambiare il mondo, ricercare e tentare di raggiungere nuovi orizzonti di senso.

Grazie, Professore.

Grazie a lei per avere dato, con grande sensibilità, forma nuova ai miei pensieri e alle mie riflessioni.

Intervista a cura di: Carla Saracino
Fonte: monolithvolume.com

“Madre Nostra”: il film del pugliese Scaraggi su Amazon Prime Video

C’è un giornalista-regista-viaggiatore che gira il mondo a bordo del suo camper Vostok100k: è Lorenzo Scaraggi e i suoi lavori stanno diventando sempre più importanti. Tanto che il suo reportage tra le campagne, un inno alla natura e all’identità del Sud, il documentario Madre nostra è adesso tra le novità di «Amazon su Prime Video», il servizio Tv on demand incluso nell’abbonamento Amazon Prime.

Un traguardo per l’autore bitontino, innamorato delle storie di confine e del suo lavoro on the road. Pensate che ha girato l’Europa con questa «casa» su quattro ruote e ha raccolto le storie di mille e mille persone, dedicandosi all’aspetto migliore e meno praticato della vita umana: l’ascolto. «Abbiamo bisogno di tornare a raccontare storie – dice Scaraggi – c’è una necessità che mette le radici in qualcosa di atavico proprio perché abbiamo bisogno di tornare a riscoprire quello che ci sta intorno, quello che c’è nella nostra storia, quello che abbiamo dimenticato, quello che esiste eppure non riusciamo più a riconoscere. Quello che spesso faccio non è altro che scavare e riportare alla luce».

E così ha fatto con il documentario Madre nostra (prodotto da Fondazione «Con il Sud» e Apulia Film Commission attraverso il Social Film Fund Con il Sud). Il film dura 52 minuti e rivela testimonianze di riscatto sociale: il fil rouge è in realtà il filo verde delle campagne, perché tutto il viaggio è un racconto che si svolge in Puglia fra orti sociali, terre confiscate alla mafia e comunità agricole. Scaraggi ci porta al «Trullo sociale» di San Michele Salentino (Brindisi), alla cooperativa «Semi di vita» a Bari, e poi ancora a Cerignola da «Pietra di scarto» e a «Spazio Esse» a Loseto (Bari).

Ogni tappa è un racconto di vita. E ogni voce, ogni immagine, è una metafora che spiega quanto l’agricoltura sia una via di salvezza. Una madre nostra, appunto, una terra che, sì, è ferita dalla Xylella e dagli orrori del caporalato, ma che è anche foriera di circoli virtuosi e di rinascite collettive.
Il canto dei grilli e il verde o l’oro della campagna pugliese sono scenografie e colonna sonora di un itinerario unico (visibile su Amazon in Italia e in tutti i Paesi anglofoni con sottotitoli all’inidirizzo https://www.primevideo.com/detail/0OO64VUGR8I61KY75PD0V64JHD/).

Il film ha vinto il secondo posto all’Italian Film Festival Cardiff (IFFC) nella sezione #CanfodPrize dedicata ai documentari; è stato premiato a Diritti a Orvieto – Human Rights International Film Festival e al Caorle Film Festival dove ha ricevuto una menzione speciale con la motivazione «Miglior messaggio di speranza». È inoltre vincitore del premio «Miglior poster» al Kosice International Monthly Film Festival, in Slovacchia ed è stato inserito nelle selezioni ufficiali di decine di festival in tutto il mondo.

Le storie del documentario sono storie di riscatto: terre confiscate alla mafia che diventano orti sociali in cui lavorano in comunità persone che provengono da realtà difficili e che ritrovano nella madre-terra la madre-nostra. Il «docu» di Lorenzo Scaraggi con Angelo Santoro (aiuto regista: Giuseppe Fedele, riprese Scaraggi e Namias, assistente al montaggio Paolo Fedele e musiche originali: Alberto Iovene) è un esempio di come possiamo ripartire da noi stessi: dalla nostra terra, dalla natura, dall’amore per l’agricoltura… ma soprattutto dal nostro coraggio di ricominciare.

Autore articolo: Enrica Simonetti
Articolo pubblicato su: “La Gazzetta del Mezzogiorno”

> Altre informazioni sul sito “Apulia Film Commission”

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Da oggi, utilizzando l’app “Io Prenoto” della Regione Puglia, è più facile prenotare anche la visita al Museo del Territorio di Neviano (Le)

Dal primo ottobre sarà possibile scaricare l’app «Io prenoto», sviluppata da DM Cultura, un sistema di prenotazione digitale che consentirà a musei e biblioteche pugliesi di gestire, in modo facile e veloce, il flusso di visitatori, ottimizzando gli accessi.

«Fare rete, consentire a cittadini e turisti di essere maggiormente consapevoli del patrimonio culturale di Puglia e allo stesso tempo permettere a chi opera nei musei di attivare dei network costanti, spazi virtuali e reali di connessione per condividere esperienze, saperi, visioni: queste sono le principali missioni di Io Prenoto», spiegano dalla Regione Puglia.

Il visitatore può scaricare l’app Io prenoto dagli store iOS Apple

o Android Google

selezionare il luogo da visitare, il giorno e la fascia oraria e prenotare il suo ingresso alla struttura.

«Un’app per mettere in rete i luoghi e le persone – dice l’assessore all’Industria turistica e culturale, Loredana Capone – assicurando a tutti i visitatori la sicurezza dovuta a questi tempi di emergenza sanitaria. Si tratta di un progetto che abbiamo fortemente voluto e che darà forza e valore alla visione dell’assessorato e del Polo Bibliomuseale. Abbiamo investito tutte le nostre energie sui beni culturali della Puglia, sulle biblioteche, sui musei. Volevamo che fossero molto più che bellissimi muri senz’anima e per questo abbiamo detto non più un euro per il restauro senza un progetto di fruizione, e poi, abbiamo provato a fare ancora di più lavorando con le istituzioni locali affinché questi potessero dialogare tra loro».

Fonte: “La Gazzetta del Mezzogiorno”