Al via da oggi le iscrizioni on line agli esami per l’abilitazione all’esercizio delle professioni di “Guida turistica” e “Accompagnatore turistico”.
Attraverso il banner presente sul sito della Provincia di Taranto è possibile accedere direttamente alle istruzioni e alla piattaforma digitale per la presentazione delle domande di ammissione alle selezioni.
Un iter rapido che prevede entro la fine del mese di marzo i termini di iscrizione e la pubblicazione delle banche dati contenenti i quesiti; il 5 ed il 7 aprile la pubblicazione del diario degli esami, che si svolgeranno entro la prima metà di maggio 2016.
Di seguito l’elenco degli atti e dei documenti da allegare all’istanza:
– copia chiara e leggibile di un documento di riconoscimento in corso di validità;
– ricevuta di avvenuto pagamento del contributo spese esame di €. 100,00 (€uro cento/00), effettuato sul c/c postale n. 12380747 – intestato alla Provincia di Taranto con la causale “Contributo spese esame”;
– copia permesso di soggiorno o altro documento, in corso di validità, attestante la regolarizzazione ai fini del soggiorno nel territorio dello Stato (se cittadino extracomunitario);
– copia del diploma conseguito all’estero con la valutazione, da parte della competente autorità italiana, della corrispondenza al titolo di studio richiesto per l’esame (se il diploma è stato conseguito all’estero);
– certificazione del competente organismo sanitario che specifica l’handicap e quantifica eventuali tempi aggiuntivi necessari per l’espletamento delle prove d’esame (se portatore di handicap);
– è gradita copia del titolo di studio posseduto.
> Per accedere alla piattaforma digitale per la presentazione della domanda di partecipazione, clicca QUI.
È iniziato stamattina il progetto didattico con le Classi Quarte della Scuola Primaria, proposto dall’A.P.S. “Play your Place. Il luogo in gioco” all’Istituto Comprensivo “Tommaso del Bene”, grazie al contributo del Comune di Maruggio.
Il progetto “Il mio paese come lo vedo io… Redazione di una Mappa di Comunità dei ragazzi”, si pone come attività di educazione all’ambiente urbano con valenza di educazione alla cittadinanza, intesa come capacità di leggere, comprendere, valutare, modificare il proprio ambiente e i propri comportamenti in vista del bene comune.
I ragazzi impegnati in questo esercizio di lettura e di presa di coscienza, sono sollecitati ad interpretare appieno lo spirito della Convenzione Europea del Paesaggio che, per esempio, all’art. 1 definisce il paesaggio “una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni” e nell’art. 2 include nella salvaguardia “sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, che i paesaggi della vita quotidiana e i paesaggi degradati”.
Attraverso la Mappa di Comunità si procederà nella lettura partecipata del paesaggio (urbano e rurale) con una modalità di rappresentazione dell’identità cittadina che tende alla conoscenza e alla valorizzazione del patrimonio locale attraverso il coinvolgimento attivo della comunità.
La buona riuscita del progetto implica un lavoro comune di ricerca e confronto, con l’obiettivo di condividere le storie locali di ieri e di oggi, le memorie degli anziani e le aspettative dei giovani, le esperienze e le conoscenze familiari, per restituire il tutto attraverso le immagini, i racconti e i documenti.
Attraverso i metodi della ricerca/azione, gli alunni svolgono una vera e propria indagine sul campo: tramite l’osservazione diretta, la consultazione delle fonti, le interviste effettuate agli attori privilegiati e i sopralluoghi, essi raccontato lo spazio a loro più prossimo, quello urbano, nelle sue particolarità storico-artistiche e architettoniche più evidenti, per poi estendere il loro punto di vista al paesaggio extraurbano, aggiungendo le tracce del patrimonio naturalistico e infine gli aspetti della cultura immateriale (aneddoti, leggende, detti popolari, ricette, canti).
Si tratta di un processo di conoscenza attiva e creativa, che passa attraverso la lettura collettiva del proprio territorio così come si è venuto caratterizzando e modificando nel tempo.
Gli obiettivi principali che il progetto si pone al fine di inserirsi proficuamente nella didattica delle classi interessate sono:
• Favorire la conoscenza del territorio, delle sue potenzialità e la presa di coscienza del proprio patrimonio;
• Attivare attraverso la scuola processi di partecipazione e migliorare la capacità di relazioni sociali sia all’interno del gruppo dei pari, sia con gli adulti nella propria realtà locale;
• Favorire l’uso di metodologie didattiche attive e cooperative, non competitive;
• Favorire l’espressione e la decisionalità dei ragazzi, futuri cittadini democratici consapevoli.
Piatti tipici a chilometro zero, si mangia in strada. In un paese di meno di 300 abitanti l’esperimento (scalabile) di un gruppo di donne.
Un po’ street food, un po’ social dining, un po’ home restaurant. Inglesismi che ormai rientrano a pieno titolo nelle agende degli appassionati di cibo. Soprattutto nell’anno del food per eccellenza, come insegna Expo. Nasce in Puglia, a Tricase Porto, un borgo con meno di 300 abitanti, «Le mamme del borgo», startup che unisce le tre tendenze. I piatti tipici della zona vengono infatti somministrati e consumati per strada e a prepararli sono le abitanti del paese, nelle loro case. Le mamme del borgo è un progetto ideato da Eleonora Bianchi, Agnese Dell’Abate, Giuseppe Ferrarese e Mattia Sansò, legati dalla passione per la buona cucina del Salento e dalla volontà di far ripartire l’economia del piccolo centro.Piatti tipici a chilometro zero, si mangia in strada. In un paese di meno di 300 abitanti l’esperimento (scalabile) di un gruppo di donne.
Piatti a chilometro zero
Creando lavoro e sfruttando i prodotti tipici, in logica chilometro zero: «I piatti proposti, dalla pasta col pesce alla paranza, – spiega Bianchi – vengono preparati con pesce dei pescatori della zona, verdure coltivate nei nostri orti, farina dei mulini locali». Un borgo, tre vicoli, dieci mamme che si dividono i compiti: «Le mamme cucinano tutti i giorni per le proprie famiglie, – prosegue – attingendo dalla tradizione culinaria che si tramanda da generazioni, quindi ci siamo chiesti: perchè non ripetere quest’azione quotidiana estendendola ad una “clientela” che abbia voglia di gustare piatti casalinghi per strada, in maniera semplice e comunitaria?».
Il ristorante di comunità
Da qui nasce il primo ristorante di comunità di Puglia, grazie anche all’aiuto del progetto «Fooding» e del MEDAB, incubatore mediterraneo per la creazione e il cambiamento d’impresa, che ha aiutato il team a sviluppare il progetto. Ma come funziona? Le dieci mamme preparano, nelle proprie cucine un menù tipico. I biglietti per la serata sono venduti in prevendita, per ora sulle spiagge e per strada e a breve tramite il sito web, presto online. Una volta nel borgo i clienti seguono un percorso e si fermano di casa in casa a ritirare il piatto caldo. Una startup capace, nella sua semplicità, di promuovere il turismo, riattivare l’economia legata alle attività tradizionali, offrire opportunità di lavoro alle donne autoctone. «Quest’estate – raccontano i fondatori – abbiamo cominciato con due cene, ma stiamo lavorando a un calendario molto più ricco per la prossima stagione estiva». I quattro vorrebbero inoltre esportare il progetto, rendendolo scalabile in tutti i borghi italiani: «L’importante è che a organizzare e promuovere “Le mamme del borgo” sia una persona del posto che ne conosca le abitudini e coinvolga la comunità locale».
A partire dagli anni Novanta, in un contesto di accresciuta competizione tra città e regioni, il turismo è stato integrato nelle politiche urbane per attrarre una vasta gamma di popolazioni in movimento che potessero garantire il consumo individuale e stimolare la presenza di investitori internazionali.
Se, per molto tempo, il turismo è stato considerato un’industria per la produzione di bolle dalle quali osservare gli spazi visitati senza interagire realmente con essi, oggi la relazione tra turismo e società è cambiata. Da un lato il turismo è diventato sempre più ‘ordinario’: viaggiamo più spesso e più facilmente, così tendiamo a osservare i nostri contesti di vita anche con gli occhi del turista che abbiamo imparato a essere. Dall’altro lato il turismo è entrato a piè sospinto nell’economia delle esperienze: andiamo altrove sempre meno alla ricerca di una forma di svago fine a se stessa (se davvero ciò sia possibile), quanto più per apprendere e accrescere il nostro bagaglio di esperienze culturali attraverso la relazione con i luoghi che visitiamo.
Il desiderio di interazione tra turisti e città sembra aumentare: è peccato guardare ma non toccare, o non addentrarsi al di là dei sentieri battuti per scoprire ‘nuovi’ quartieri dove incontrare persone ‘vere’. Non più quindi (solo) musei e monumenti, ma occasioni intangibili percepite come creative, ricercate prevalentemente nei contesti quotidiani dei luoghi visitati, come spazi di lavoro e spazi di socializzazione degli abitanti, oppure in luoghi insoliti e interstiziali.
È in questo contesto che hanno preso vita le pratiche del cosiddetto ‘turismo partecipativo’, basate sulla valorizzazione dell’interazione e delle relazioni sociali. L’esperienza antesignana è rappresentata dal Global Greeter Network nato a New York nel 1992. La parola greeter in inglese indica l’addetto all’accoglienza (che sia in un centro commerciale, in una chiesa o in un luogo pubblico). Per estensione i greeters sono abitanti che mettono a disposizione dei turisti le proprie conoscenze. Tra i primi casi in Europa si annovera l’associazione Parisien d’un Jour, nata nel 2007.
Le immagini sul sito internet offrono una combinazione di affermate icone urbane e turistiche al fianco di foto di spazi meno conosciuti che comprendono orti urbani, murales e architetture insolite. I turisti e le guide sono sempre fotografati in situazioni conviviali, con indosso abiti casual e informali: l’obiettivo è creare arricchimento culturale reciproco non solo per i visitatori, ma anche per le guide volontarie.
A Parigi, Parisien d’un jour ha ottenuto il sostegno dell’amministrazione cittadina e del Consiglio regionale. L’iniziativa, infatti, arricchisce il portfolio di rappresentazioni alla base dell’immaginario turistico della città e può contribuire a ‘fidelizzare’ alcuni tipi di turisti, offrendo loro lo spunto per tornare in città utilizzando la leva della possibile ‘amicizia’ che si può instaurare con le guide/abitanti e offrendo la possibilità di visitare attrazioni o di partecipare a eventi alternativi a quelli più mainstream.
Peraltro, il mantenimento degli spazi urbani iper-turistificati e l’investimento in una continua offerta di eventi spettacolari si scontra oggi con la riduzione delle risorse economiche disponibili e l’aumento delle contestazioni da parte degli abitanti che mettono in discussione le politiche urbane che rendono lo spazio di vita dei residenti subalterno a quello dei servizi per il turismo (come raccontato nel bel documentario Bye Bye Barcelona di Eduardo Chibás). Questi fattori spingono le amministrazioni a cercare strade alternative per conciliare interessi economici e necessità sociali.
Il turismo partecipativo non è comunque antitetico alle forme più spettacolari di promozione turistica, come per esempio i mega-eventi. Nella Milano di Expo è stato lanciato da due note cooperative sociali il progetto Piacere, Milano, sostenuto anche dal Comune. L’obiettivo è far incontrare abitanti e visitatori per una cena o per una visita inedita della città, coinvolgendo così la popolazione residente nella promozione del territorio in maniera diffusa e diversa (il progetto è accompagnato anche da due agenzie di comunicazione e marketing).
Un evento come Expo, infatti, investe non solo lo spazio circoscritto della Fiera, ma uno spazio urbano più esteso, modificandone ritmi e ridefinendo zone di ribalta e di retroscena, ed escludendo categorie sociali trasversali a turisti e residenti – come i migranti – pur nell’illusione temporanea di un pacifico e risolto social mix.
Allo stesso modo, in occasione dei mega-eventi, i riflettori si posano su determinate immagini vincenti della città, nel caso specifico di Milano sempre più attente a presentare la metropoli lombarda come smart e sharing city, selezionando alcune zone e, di conseguenza, i loro abitanti (temporanei o meno). Un’iniziativa come Piacere, Milano può contribuire a cambiare questo immaginario, o quanto meno a renderlo più complesso, ampio e in dialogo con il tessuto sociale della città.
Il coinvolgimento dell’imprenditoria sociale nel turismo partecipativo sta aumentando con l’obiettivo di offrire opportunità di occupazione agli strati più deboli della popolazione, fornire forme di ospitalità più inclusive ed elaborare contro-discorsi sul turismo e sulle città. Un caso interessante è rappresentato dalla rete delle Città Migrande, un’iniziativa nata nel 2007 per volontà di alcune organizzazioni attive nell’ambito della cooperazione e dei viaggi solidali. La rete è oggi attiva in Italia a Torino, Milano, Genova, Roma, Firenze e Napoli.
L’idea alla base del progetto è l’elaborazione di itinerari nei quartieri a più alta densità di immigrati, coinvolgendo questi ultimi nelle vesti di guide turistiche. Ci si può trovare così a sentirsi raccontare una storia di vita fatta di reti lunghissime, a osservare una chiesa assolutamente banale che però è proprio quella in cui boliviani e filippini si ritrovano, e a bere un succo a base di un frutto sconosciuto in un bar in cui prima non si avrebbe pensato di entrare.
Anche del turismo nei quartieri etnici sono note le contraddizioni: oltre al rischio di mercificazione di tradizioni e abitudini altre, come è successo nelle varie China Town o Little Italy in giro per il mondo, non si esclude la possibilità di innestare forme di gentrificazione a danno degli abitanti ‘etnici’. Si può anche mettere in questione quanto queste esperienze rappresentino delle reali forme di partecipazione, e quanto invece non si limitino a essere strumenti con i quali riprodurre, quasi incoscientemente, uno sguardo neocoloniale su concittadini che continuano a essere considerati ‘disagiati’ e subalterni.
Le ricadute di queste esperienze coinvolgono tanto la città immaginata, proponendo nuove letture, tanto la città praticata, creando nuove mappe. Possiamo però chiederci quanto esse siano in grado di aumentare veramente il capitale relazionale delle città. Quanto, cioè, il turismo partecipativo è frutto di una reale apertura verso l’Altro e quanto invece è frutto di quel vago immaginario di cosmopolitismo che si presta così facilmente ad essere cooptato da attori economici e politici che hanno interesse a cavalcare nuove modalità di rigenerazione ebranding della città?
Perché, se da un lato un’ampia serie di iniziative di turismo partecipativo ambiscono a costruire città più cosmopolite, giuste e solidali, dall’altro, possono anche fare da volano a quelle forme di business che stanno cavalcando la tendenza alla ricerca di esperienze autentiche e quotidiane. In questo campo, il web 2.0 assume un ruolo preponderante.
Celebrato dai sostenitori della cosiddetta sharing economy, l’esempio più ambiguo e noto, a questo proposito, è quello di Airbnb. Di recente si è parlato di comunitarismo neoliberista per sottolineare le modalità con cui la celebre piattaforma per l’affitto di breve durata di stanze e appartamenti contribuisce a trasformare le relazioni umane in forme di circolazione del capitale.
Ma sono moltissime le applicazioni e i portali che cavalcano questa voglia di turismo del quotidiano per mettere in contatto, almeno a un livello molto superficiale, turisti ed abitanti, come per esempio GuideMeRight, una app che consente di vendere a basso costo itinerari fuori dai sentieri battuti incitando a trovare il proprio local friend e a farsi coinvolgere nel suo stile di vita.
Il denominatore comune di queste iniziative è la trasformazione del ‘banale’ in nuove forme di consumo culturale che enfatizzano il ruolo delle relazioni sociali (vere o presunte). Un cambiamento che merita di essere osservato con attenzione perché, se la ‘bolla’ del turismo si è rotta, si rende necessario comprendere e analizzare più in profondità il fenomeno per poter predisporre efficaci politiche urbane integrate – e quindi non solo turistiche, ma anche sociali, economiche e culturali – in grado di dar vita a sinergie virtuose per migliorare la qualità della vita in città, al di là del mero supporto al settore turistico.
Per approfondimenti Tourisme Participatif, Collection Revue Espaces, 264, Éditions Espaces tourisme & loisirs, Novembre 2008 Partage non marchand et tourisme, Collection Revue Espaces, 316, Éditions Espaces tourisme & loisirs, Janvier 2014
“A casa ho un pezzo di anfora”. Alzino la mano tutti gli archeologi a cui non è mai capitato di sentirsi dire questa frase (o una delle sue varianti) da qualcuno che, almeno a prima vista, non è né un tombarolo né un ladro o un trafficante d’arte, ma piuttosto un insospettabile panettiere, un’amabile vecchina o un amico di famiglia. Te la dicono così, quasi cinguettando, con aria di candida innocenza, come se non ci fosse nulla di male, spesso solo per attaccare discorso o per dimostrare una certa sensibilità verso i temi della tutela e della conservazione del patrimonio culturale.
Ribadisco, non stiamo parlando di delinquenti di professione che depredano e danneggiano il nostro patrimonio culturale in maniera consapevole per trarne profitto, ma dei nostri vicini, amici o parenti di specchiata onestà, insomma gente che non ha nulla a che fare con la ricettazione e il furto di materiale archeologico. Ed è proprio questo che ogni volta mi lascia spiazzato: l’apparente leggerezza con cui si dichiara quello che a tutti gli effetti è un illecito.
E allora cosa dobbiamo pensare di queste persone? Incauti? Inconsapevoli? Sprezzanti delle norme? Difficile dirlo, probabilmente tutte queste cose insieme. Lo conferma la faccia che fanno quando tu fai calare la scure del “lo sai che è reato detenere illegalmente materiale archeologico in casa propria?” E ancor più le risposte che ti danno, in genere qualcosa del tipo “abbiamo talmente tanti reperti nei magazzini dei musei che nessuno vedrà mai, e il problema sono io che ho un minuscolo frammento sulla mensola della cucina?”, espressione in salsa archeologica dell’autoassoluzione passe-partout: “i veri reati sono altri, io non faccio nulla di male a nessuno” anche detto “argomento del sì, vabbè “.
Insomma, inutile nasconderlo, esiste un diffusissimo atteggiamento di incauta leggerezza – più o meno consapevole – nel trattare il materiale archeologico, ed è questo il vero problema, specie in un paese come il nostro che è una gigantesca area archeologica dove è impossibile per le autorità preposte controllare ogni fazzoletto di terra, e dove accade invece di frequente che pezzi di quel patrimonio diventino facile preda di chiunque. Così in molti territori, finita la stagione dei tombaroli di mestiere, è iniziata quella dei “raccoglitori della domenica”, persone che durante una passeggiata con il cane, o una corsetta nel parco, non si lasciano sfuggire l’occasione di portare a casa, come souvenir qualsiasi, frammenti di ceramica millenaria o pezzetti di bronzo pluricentenari, nemmeno fossero margheritine.
Certo, esiste la legge. E la legge, molto chiara in materia, non ammette ignoranza, come si suol dire. Figuriamoci se ammette leggerezza e superficialità: chi raccoglie reperti archeologici commette un reato, punto.
Ma se del reato in sé si occupano le forze dell’ordine e i funzionari del Mibact, l’archeologo può solo denunciare? No, può fare molto altro percorrendo altre strade: per esempio lavorando “a monte” del problema, ovvero cercando di dissipare quell’atteggiamento diffuso che è all’origine del reato. Come? Svolgendo fino in fondo la propria funzione di mediatore culturale tra passato e presente, comunicando e divulgando non solo i contenuti specifici delle proprie ricerche, ma anche i valori e i principi alla base della propria disciplina. L’obiettivo è chiaro e ambizioso: far sì che una nuova sensibilità nei confronti del nostro patrimonio si diffonda in modo capillare e metta radici profonde nella società, prendendo il posto del “sì, vabbè” tanto caro ai raccoglitori di cocci. È una responsabilità che gli archeologi non possono più trascurare, né demandare ad altre figure professionali.
Si può trasmettere questo messaggio in molti modi diversi. A Populonia, per esempio, c’è chi sta mettendo in atto una campagna di informazione preventiva che aiuti a diffondere le buone norme di comportamento in caso di “avvistamento di un coccio”. Come ha già raccontato su Archeostorie Carolina Megale, il 28 ottobre scorso Populonia e il golfo di Baratti sono stati messi in ginocchio da un violento nubifragio, a seguito del quale il problema di cui parliamo si è fatto particolarmente evidente.
Fiumi d’acqua, fango e pietre hanno invaso il golfo, sradicato alberi, aperto voragini e travolto strade. Frane e smottamenti hanno ingoiato intere fette di terreno con tutti i relativi depositi archeologici, hanno messo in luce sepolture antiche, muri, manufatti etruschi e romani e disseminato tutto il golfo di reperti, frammenti di ceramica dipinta e ossa umane. Questo anche in zone esterne ai limiti “sorvegliati” dal Parco di Baratti e Populonia: zone molto frequentate da turisti e passanti e perciò perfetto terreno di caccia per i “raccoglitori della domenica”.
La grave situazione ha portato il funzionario responsabile della Soprintendenza Archeologia della Toscana Andrea Camilli a pubblicare un appello sul suo profilo Facebook in cui invitava gli abitanti della zona a non raccogliere i materiali archeologici per evitare di fare danni, e soprattutto a segnalare casi sospetti di furto. Eppure, nonostante l’immediato l’intervento del personale della Soprintendenza, della società Parchi Val di Cornia, degli archeologi che lavoravano sul campo e di alcuni cittadini, non sono mancati i fenomeni di sciacallaggio paventati da Camilli.
Inoltre, considerata l’entità dei danni e della dispersione dei materiali, è facile immaginare che ancora per molto tempo basteranno qualche goccia di pioggia, un po’ di vento, una mareggiata o il passaggio di un animale, per mettere in luce (e in pericolo) qualche nuovo reperto. Che fare allora? Siamo sicuri che le persone siano adeguatamente informate su come comportarsi in certi casi, e sui rischi che corrono infrangendo la legge?
Nel dubbio, passato il momento dell’emergenza, Andrea Camilli si è fatto promotore, insieme a Carolina Megale e all’Associazione Past in Progress, di “È GIÀ TUO. Non raccogliere i reperti”, una campagna di comunicazione che illustri a turisti e visitatori le norme di buon comportamento di fronte al ritrovamento di oggetti antichi. L’idea ha trovato subito l’entusiastico sostegno di tutte le persone, non solo addetti ai lavori, che hanno a cuore il patrimonio archeologico di Populonia. Ho aderito subito anch’io mettendo a disposizione le mie matite.
Come detto, esistono riferimenti di legge chiari e precisi in materia di scoperte fortuite, e l’obiettivo della campagna è tradurre queste norme in buone pratiche di comportamento per tutti i cittadini. Abbiamo cercato di rendere il tutto in un linguaggio facilmente accessibile, perché la conoscenza di queste buone pratiche si traduca presto in una tutela diffusa e partecipata. Così a Populonia l’archeologia mostra ancora una volta il suo volto di forza sociale, come già è avvenuto subito dopo il nubifragio con l’iniziativa “Su le maniche per Baratti” organizzata dalla società Parchi Val di Cornia, che ha chiamato a raccolta i cittadini per liberare dal fango alcune tombe di Baratti. Anche le calamità naturali, dunque, possono servire per far avvicinare in maniera consapevole e partecipata la comunità al suo passato.