E’ bello vedere la voglia di connettersi alla Natura delle persone, che spesso avviene attraverso il piacere di raccogliere ciò che cresce spontaneo, naturalmente, quello che dobbiamo tenere sempre presente è che tutto ciò che si manifesta in natura ha una funzione, se vogliamo che le cose continuino dobbiamo avere la saggezza e l’umiltà di sapere come inserirci nei cicli naturali, in modo che le nostre azioni siano sostenibili per il futuro.
Una chiacchierata fatta online con un Amico, sullo zafferano, permette di mostrare questo principio.
Come sempre, bisogna fare molta attenzione a distinguere le pratiche agricole – che hanno lo scopo di ottenere un determinato prodotto (per dirla metaforicamente, mungere la vacca), con la vita selvatica, il cui scopo è perpetuare se stessa.
Detto questo e per fare un poco di chiarezza iniziale, lo zafferano coltivato (Crocus sativus), così come il suo cugino selvatico (Crocus thomasii), dei cui fiori state discutendo, è una pianta perenne, ossia capace di vivere per tanti tanti anni, sicuramente oltre i 10, accrescendo progressivamente le dimensioni del proprio bulbo ed il numero di fiori che produce ad ogni autunno.
Quindi diverso da cipolle ed aglio, per fare un esempio, i cui bulbi, dopo due anni, se non raccolti, muoiono per dare origine a tanti bulbilli.
Anche per quanto riguarda la coltura, ci sono metodi diversi (cosa che forse avrà dato adito all’equivoco), il metodo italiano, che è il più costoso, prevede il dissotterramento annuale, a fine primavera, degli stessi bulbi che hanno prodotto il fiore, per poi ripiantarli in estate, di solito in un altro terreno (rotazione).
Nel metodo spagnolo ed iraniano, i bulbi si lasciano invece tranquilli in loco per circa 10 anni, dopodiché si raccolgono e si piantano altrove – per questo lo zafferano italiano è più pregiato e costoso, perché gli stimmi (la parte rossa che costituirà poi la spezia) sono più lunghi rispetto alle altre nazionalità.
Indipendentemente da questo, i bulbi “madre” ci sono sempre e producono anche bulbi più piccoli, “figli”, che ci metteranno qualche anno prima di fiorire e poi continueranno a farlo per anni.
Questo per lo zafferano coltivato, ora passiamo a quello di cui discutete, lo zafferano di Thomas.
In natura, nulla si fa senza che sia importante per la sopravvivenza – i fiori che raccogliete vengono prodotti dalla pianta con uno scopo be preciso, che non è solo quello riproduttivo – che avviene anche tramite i bulbilli – ma è quello di assicurare variabilità genetica alla pianta, per dire la stessa ragione per cui gli esseri umani non si dovrebbero riprodurre con consanguinei, ma scegliere partner il più possibile diversi geneticamente.
Perché? Perché così la specie sarà in grado di adattarsi (entro certi limiti) ai cambiamenti ambientali ed ai diversi ambienti che potrebbero ospitarla.
Se noi prendessimo tutti i fiori dello zafferano selvatico, questi popolamenti si estinguerebbero lentamente, sia perché, senza semi, non potrebbero colonizzare da soli nuovi territori divenuti disponibili (es. un terreno non più coltivato da dieci anni), sia perché diverrebbero solo cloni: alla prima malattia morirebbero tutti.
In campo colturale la cosa non importa, anzi, preferiamo che i bulbi siano tutti identici geneticamente, perché così avremo precisamente il tipo di prodotto che desideriamo ottenere.
Ciò detto, il discorso da fare è invece molto, molto più generale: nella Bibbia, per fare un esempio, è scritto che coltiverai 6/7 del tuo campo, ma ne lascerai 1/7 selvatico ed 1/7 del tuo raccolto lo lascerai agli animali selvatici – ma cose simili le troviamo in tutti i libri sacri del mondo.
Per il nostro senso logico è banale: se mangiassimo tutte le uova, non ci sarebbero più galline.
I ricci di mare, per fare un esempio, nel Salento si stanno progressivamente estinguendo, perché tutti raccolgono senza porsi il problema di quanto si possa realmente raccogliere: se ci fosse un monitoraggio serio, bisognerebbe vietarne la raccolta per 3-4 anni, prima che le popolazioni si possano riprendere dallo stato attuale.
Quindi, per tutto, dai funghi, agli asparagi, ai ricci di mare, alle lumache, cerchiamo di tenere sempre a mente, come una preghiera, che la nostra terra noi non la ereditiamo dai nostri padri, ma l’abbiamo in prestito dai nostri figli e nipoti, è a loro che la nostra coscienza deve rispondere.
Per cui, di cinque, lasciamo sempre almeno due, ringraziando e pregando perché le cose possano andare bene, ossia al contrario di come stanno per ora andando.
Autore articolo: Valentino Traversa