Talun disse: “Spargete poco sangue. Deh non vogliate esser micidiali! Quasi pace è la guerra, quando langue”. O dolci eroi sognanti su i guanciali …, udiste l’ordine di guerra? “Le navi scorreranno gli ospedali, i marinai combatteranno a terra”.
Gabriele d’Annunzio, Canto dei Dardanelli
Eredi degli antichi Ospitalieri di San Giovanni, Ordine monastico-militare dedito alla cura dei pellegrini malati e dei combattenti feriti durante le Crociate, i Cavalieri di Malta presero questo nome dal loro luogo di approdo definitivo, dopo essere stati cacciati dalla Terrasanta nel 1291 in seguito alla sconfitta di Acri ed essere passati, nei secoli successivi, prima per Cipro, poi per Rodi e infine per Malta.
Esperti navigatori e ancor più esperti combattenti, essi giunsero col tempo ad arruolare tra le proprie fila la crema della nobiltà cattolica europea, fino a divenire nel ‘500 – ‘600 un vero e proprio corpo d’élite militare e aristocratico, in prima fila nella guerra contro il Turco, col quale ingaggiarono per più di tre secoli un lungo e cruento conflitto nelle acque del Mediterraneo.
In tutte le occasioni di scontro con gli Ottomani, del resto, i Cavalieri di Malta si distinsero sempre per il loro coraggio, spinto fino alla temerarietà, che li rese famosi in tutta Europa acclamandoli come i più strenui e forti difensori della Cristianità sui mari: essi erano infatti ben all’altezza della loro fama, presentandosi come un Ordine cavalleresco militare e religioso che coniugava insieme i due tipi di voto, portando avanti in tal modo una lotta mortale contro gli infedeli, senza possibilità di resa o di salvezza in caso di cattura. La loro missione, e insieme la loro sorte in caso di sconfitta, erano dunque per molti versi simili a quella dei moderni “incursori”, corpi scelti addestrati a penetrare oltre le linee nemiche con compiti di ricognizione e sabotaggio, oppure utilizzati come truppe d’assalto in prima linea nello scontro frontale col nemico: ieri come oggi le leggi di guerra prevedono infatti l’eliminazione sul posto degli incursori catturati, considerati non come prigionieri di guerra ma come spie, infiltrati o sabotatori, e come tali passibili di legge marziale immediata. Ritenuti giustamente dagli Ottomani come il nemico pubblico numero uno, i Cavalieri di Malta erano quindi trattati da questi col massimo rigore possibile, debitamente ricambiati dai primi, peraltro, meno avvezzi ancora dei Turchi a fare sconti al nemico.
Ma vediamo più da vicino qualcuno di questi episodi di eroismo, manifestatisi nel corso di famose battaglie passate alla storia, quali il “grande assedio” di Malta (1565), la battaglia di Lepanto (1571) e la ventennale guerra di Candia (1647-1669). Partiamo da quest’ultima, particolarmente cruenta nelle sue fasi finali ma ricca di eventi bellici al limite dell’incredibile, che bene illustrano alcune caratteristiche peculiari di questa formidabile epopea.
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L’ultima fase del ventennale assedio di Candia vide il succedersi di episodi di eroismo senza precedenti nel Mediterraneo orientale, allorquando aristocrazia veneziana, Ospitalieri di San Giovanni e volontari da mezza Europa si diressero in massa, raccolti in spedizioni isolate o in vere e proprie missioni organizzate, verso i lidi di Creta, cercando di unirsi ai combattenti stremati che sotto il vessillo del Leone di San Marco difendevano l’ultimo baluardo della Cristianità nell’Egeo dall’assedio dei Turchi.
Questa pagina di storia e di coraggio non fu tuttavia tra le più fortunate: il destino di Candia era infatti segnato, e le gesta finali dei suoi difensori destinate a subire quella stessa sconfitta che avrebbe avvolto, di lì a poco, l’intera rete di possedimenti veneziani nel Levante. Si narra, ad esempio, di una spedizione notturna allestita in tutta fretta da un manipolo di Cavalieri, intenzionati a forzare il blocco ottomano con la Thérese, una grossa nave carica di munizioni ed esplosivi destinati agli assediati, che giunta in prossimità del porto di Candia, nell’atto di lanciarsi a tutta velocità contro i Turchi per romperne l’accerchiamento, fu colpita nella santabarbara da una bordata ottomana ed esplose, spargendo sugli scogli frammenti di legni, cannoni e cadaveri per il raggio di alcuni chilometri. E i Cavalieri feriti, coi corpi spezzati e le ossa rotte, furono lasciati a morire dissanguati, di fame e di sete, sulle spiagge dell’isola, in balìa dei rapaci e degli animali da preda.
Oppure si narra la tragedia infinita di quel Cavaliere, spagnolo d’origine ma naturalizzato veneziano, che dopo una vita passata tra missioni diplomatiche d’ogni tipo al servizio del re di Spagna Filippo II, per convincere i sovrani europei a intraprendere ogni sforzo per la difesa dell’isola, decise infine di partire volontario, insieme alla sua compagna, per partecipare all’ultimo atto della guerra di Candia, giungendo insieme ai nobili della Serenissima sull’isola greca proprio alla fine della sua epopea.
Consapevoli della sorte riservata dai Turchi agli assediati sconfitti (come avvenne cinquant’anni prima a Famagosta, tra l’indignazione di tutta Europa), giunti allo stremo delle forze i Cavalieri di San Giovanni fecero partire nottetempo tutti i combattenti rimasti, per restare soli a difendere il forte, secondo il voto fatto al momento dell’investitura di difendere l’Europa cristiana senza ritirarsi di fronte al nemico. E così fu. Sotto le bombe ottomane, che piovevano fitte dal mare sulle mura per preparare l’assalto finale, il Cavaliere spagnolo raggiunse la moglie nella propria camera, e in preda a un’angoscia indicibile la trovò raggiante di gioia, per aver dato alla luce un bambino: ma la gioia mutò presto in terrore, appena la donna si accorse che il marito aveva in animo di ucciderli entrambi per non lasciarli cadere vivi nelle mani nemiche. Con un colpo veloce di “misericordia” alla gola (lo stiletto sottile usato per dare il colpo di grazia al nemico), il Cavaliere uccise così la propria famiglia, per poi gettarsi in lacrime e furente di collera contro l’aggressore ottomano, cercando la morte sotto le mura del forte: ma un fatto nuovo era giunto, frattanto, perché il Turco – colpito dal coraggio cristiano – decise di offrire una resa onorevole ai Cavalieri rimasti, permettendo loro di ritirarsi con armi e bagagli.
E la tragedia si compì. Accortosi che il sacrificio dei suoi cari era stato vano, il Cavaliere salì fino al punto più alto della torre di guardia e si gettò di sotto, in preda alla disperazione, per non dover sopravvivere – lui solo – allo sterminio della propria famiglia: e ancora si narra che il suo fantasma insepolto, insieme a quello dell’infelice compagna e del bambino, si aggiri fra le mura di Candia, ricordando al mondo la tragedia e il dolore per quell’inutile atto di sacrificio ed eroismo.
Questa è dunque la storia triste e gloriosa dei difensori di Candia, ultimo avamposto della Cristianità in Oriente, di lì a poco caduta per sempre nelle mani dei Turchi: questa è la storia del sacrificio inutile di quell’élite aristocratica, veneziana ed europea, pronta a morire per difendere quel simbolo estremo della fede cattolica, “l’ultima frontiera prima del Grande Nulla”. Morire per Cristo, per la gloria di Spagna o per la difesa d’Europa: di certo, per tutti, morire per Candia.
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Un’altra pagina di grande eroismo fu scritta quando i Turchi attaccarono nel 1565 la capitale dell’isola di Malta, La Valletta, mettendo così in pericolo l’esistenza stessa dell’Ordine nel Mediterraneo: anche in questo caso si trattò di un assedio notevolmente cruento, il cui esito stava per essere tragicamente sfavorevole per gli assediati, circondati da una marea di navi e di soldati ottomani senza precedenti, se non fosse stato per la previdenza (e direi quasi “preveggenza”) del Gran Maestro di allora, lo spagnolo fra’ Juan de Homedes, che aveva deciso di rafforzare le difese del porto e della capitale nell’eventualità di un attacco imminente.
Nell’ottica del Gran Turco, infatti, si sarebbe dovuto trattare della resa dei conti finale contro gli odiati Cavalieri, la cui “guerra di corsa” ai danni dei pirati saraceni metteva a dura prova la libertà d’azione di quest’ultimi nel Mediterraneo e la loro fama di pretesa invincibilità. Così il 18 Maggio 1565 seimila Cavalieri di Malta si ritrovarono a fronteggiare più di quarantottomila soldati turchi, riusciti a sbarcare sulle coste dell’isola e determinati a espugnarla con ogni mezzo.
Bombardamenti continui e assalti quotidiani dei giannizzeri, sempre respinti, non fiaccarono tuttavia la resistenza maltese, che fra vittorie e sconfitte, ribaltamenti di fronte e attacchi improvvisi riuscì eroicamente a resistere nella città assediata, finché giunsero finalmente volontari e rinforzi da tutta Europa a portare aiuto e a rompere l’assedio ottomano: la posta in gioco infatti era tale che le nazioni cristiane non potevano permettersi la capitolazione dell’Ordine nel Mediterraneo, cosicché, seppure in extremis, le varie potenze, signorie e principati del Continente si decisero finalmente a venire in soccorso dei propri Cavalieri, distintisi una volta di più per eroismo, tenacia e strategia militare. E La Valletta fu salva.
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Ma la pagina sicuramente più nota e centrale nell’infinito conflitto della Cristianità contro il Turco fu quella in cui è scritta la battaglia di Lepanto (7 Ottobre 1571), passata alla storia come “la” battaglia per eccellenza, dove gli eserciti riuniti di tutta Europa infersero la più cocente sconfitta alle armate ottomane, pur senza riuscire a sbaragliarle del tutto: e anche qui i Cavalieri di Malta, ancora una volta all’unisono con l’alleata Venezia, furono i fautori della scelta decisiva di attaccare il nemico, mentre il resto della flotta decideva di ritirarsi o di temporeggiare, alla vista dell’imponente schieramento avversario. Così la sera del 18 Settembre 1571, durante la seduta decisiva del Gran Consiglio della Lega Santa nei mari di Grecia, Cavalieri e Veneziani minacciarono i propri alleati di attaccare i Turchi anche da soli, se si fosse indugiato oltre: si sarebbe trattato di poche navi, assolutamente ininfluenti per l’esito finale del conflitto e destinate a una sicura sconfitta, ma la loro minacciosa determinazione fu sufficiente ad accendere nel resto della flotta cristiana un rinnovato ardore, spingendola nei giorni successivi a scendere coraggiosamente in battaglia contro i Turchi. Ascoltiamo dalle parole dello storico inglese Colin Thubron una breve e suggestiva ricostruzione delle fasi salienti di questa battaglia, tratta da resoconti e testimonianze dell’epoca: Lepanto, una lotta all’ultimo sangue.
“Durante il consiglio, i comandanti più prudenti, tra i quali Gian Andrea Doria, si dissero decisamente contrari alla battaglia, giacché ritenevano che, qualora la flotta cristiana fosse stata sconfitta, l’intero Mediterraneo sarebbe divenuto preda degli infedeli. Tuttavia prevalse il parere contrario della maggioranza: i Veneziani, e con loro i Cavalieri di Malta, si dimostrarono aggressivi fino a minacciare di combattere da soli, e lo stesso don Giovanni d’Austria era deciso a trascinare i Turchi in battaglia. (…) Don Giovanni d’Austria passò così immediatamente all’azione. (…) Le navi cristiane cominciavano a schierarsi l’una a fianco dell’altra, molto disciplinatamente e così vicine da non consentire il passaggio. Era indispensabile infatti che la flotta della Lega Santa, con l’enorme peso dei cannoni montati a pura, mantenesse una formazione compatta e si scontrasse frontalmente coi musulmani. (…) Secondo il piano minutamente elaborato (…), la flotta della Lega Santa si divise in 4 grandi squadre – destra, sinistra, centro e riserve. Si formarono squadre miste di navi veneziane, spagnole, genovesi e pontificie, per evitare che, nel mezzo della battaglia, uno qualsiasi degli alleati, in preda al panico, si ritirasse con tutto il suo contingente. Nella squadra centrale, formata da 64 galee, c’era la Real di don Giovanni, fiancheggiato da Venier sull’ammiraglia veneziana, da un lato, e, dall’altro, da Marcantonio Colonna, comandante delle truppe papali. In questo settore c’era anche una piccola ma agguerrita flottiglia dei Cavalieri di Malta, che spiccava per i grandi vessilli azzurri. (…) Mentre le vele turche si facevano sempre più visibili nella chiara luce del mattino, le 6 galeazze veneziane, altissime e irte di cannoni – sì da somigliare a fortezze galleggianti, ma, ahimè, troppo pesanti per manovrare rapide – furono rimorchiate dalle galee fino a circa un chilometro di fronte alla linea di battaglia, donde potevano contrastare con l’artiglieria nemica. I comandanti delle galeazze dell’ala sinistra erano quasi tutti imparentati col povero Marcantonio Bragadin (il martire di Famagosta, n.d.a.), e fremevano dal desiderio di vendicarsi. (…) Ebbe così inizio l’ultima grande battaglia fra galee nel Mediterraneo. * (…) Man mano che le flotte si avvicinavano l’una all’altra, gli equipaggi erano colpiti dal numero dei nemici. Dietro le isolate galeazze i Turchi riuscivano a distinguere una massiccia legione di 209 galee, sulle quali scintillavano le corazze della Cristianità in armi, mentre i cristiani guardavano sbigottiti la selva di 274 galee e galeotte ottomane e la miriade di imbarcazioni minori. (…) Erano le 11 del mattino. Il vento che fin dall’alba soffiava di poppa ai Turchi, cadde all’improvviso e il mare si fece liscio come l’olio. (…) Le due flotte si avvicinarono l’una all’altra nel più grande silenzio. I musulmani pregavano raccolti, mentre al centro del fronte cristiano don Giovanni era caduto in ginocchio, implorando la benedizione di Dio sull’impresa. Senza por tempo in mezzo il suo gesto fu imitato da ogni uomo che non fosse occupato ai remi. Archibugieri spagnoli e pontifici, marinai genovesi, Cavalieri di san Giovanni, spadaccini veneziani, fanti napoletani, picchieri siciliani, tutti s’inginocchiarono come un sol uomo sui ponti accanto alle loro armi. Gli unici suoni erano lo scricchilio dei remi e lo sciaguattare dell’acqua contro le prue. I cannonieri, tenendo in mano lo stoppino già acceso, pregavano accanto ai loro cannoni; i fucilieri s’inginocchiavano appoggiando i moschetti contro le murate. Tra quella gran moltitudine solo i frati e i monaci restarono a prua delle navi, levando al cielo i crocefissi: francescani, domenicani e gesuiti spruzzavano acqua benedetta sulle teste chine, promettendo indulgenze a tutti i combattenti e l’assoluzione a chiunque fosse caduto in battaglia. (…) Frattanto, dopo aver pregato con inusitato fervore, i soldati cristiani si rialzarono. Venne quindi dato fiato alle trombe e le bande suonarono. Raccontò poi un ufficiale che don Giovanni d’Austria “era così desideroso di cimentarsi in battaglia che sulla piattaforma da combattimento della sua galea aveva preso a danzare con entusiasmo giovanile un’aggraziata piva assieme ad altri due cavalieri”. (…) Dieci minuti dopo mezzogiorno i Turchi finalmente aprirono il fuoco”.
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(…) Molti componenti della flotta cristiana compirono atti di valore. Uno spagnolo rimasto sconosciuto, colpito a un occhio da una freccia, se la strappò, si mise un fazzoletto attorno al capo a chiudergli l’orbita vuota, e fu il primo a salire a bordo della nave nemica attaccata. Dall’ammiraglia di Genova, il cui capitano era stato ucciso, il ventunenne principe di Parma si fece strada a fendenti su una galea turca, conquistandola quasi da solo. Sulla galea siciliana San Giovanni, un sergente di nome Muñoz, che a causa di una febbre altissima stava sotto coperta, salì sul ponte urlando che preferiva morire combattendo, e con un violento attacco respinse gli aggressori per metà nave e ne uccise quattro. Poi, ferito da innumerevoli frecce, con una gamba maciullata, crollò esanime fra i rematori non prima di aver incitato i compagni a resistere. Proprio a bordo della Real si scoprì che uno degli archibugieri era una donna, chiamata Maria la Bailadora (la Danzatrice). Unitasi a una squadra che abbordava la Sultana, uccise un turco in un feroce duello corpo a corpo, e, per ricompensa, in seguito le fu permesso di restare nel reggimento. Anche frati e monaci combattevano con grandissimo ardore.
Un frate spagnolo giunse al punto di legare il proprio crocefisso alla punta di un’alabarda, e a quel modo guidò una squadra all’arrembaggio. Un frate cappuccino romano, vedendo che la sua galea era stata sopraffatta, afferrò un raffio e lo usò come arma finché non ebbe ucciso 7 turchi e scacciato gli altri dal ponte. Un episodio ancor più strano si verificò quando un lontano cugino del papa, di nome Ghisliero, guidò una squadra all’arrembaggio di una galea turca. Per anni egli era stato prigioniero ad Algeri e ora si trovò di fronte un corsaro algerino che gli era stato amico nella sfortuna. “Se vuoi salvarti”, gli urlò, “buttati a mare”. Ma l’uomo si rifiutò di abbandonare i compagni e impugnò la scimitarra. Ghisliero, portando lentamente l’archibugio alla spalla, gli sparò al petto: poi, visto che non era ancora morto, pose fine alle sue sofferenze con la spada. * (…) Uno degli scontri più cruenti di tutta la battaglia fu quello tenutosi nel settore Sud. (…) Le prime a subire l’assalto furono tre navi maltesi dei Cavalieri di San Giovanni, vecchi nemici dei corsari ottomani; 7 galee algerine si posero al loro fianco, tempestandole di frecce e pallottole da distanza ravvicinata; poi i corsari andarono decisi all’abbordaggio e trucidarono quel che restava degli equipaggi.
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Per parte loro i Cavalieri diedero prova di grandissimo coraggio: Geronimo Ramirez di Saragoza menava fendenti con tanta ferocia che solo dopo averlo visto disteso, trafitto da innumerevoli frecce, il nemico osò avvicinarglisi. Sulla nave maltese il priore Pietro Giustiniani, comandante della flottiglia, fu l’ultimo a cadere, trapassato da 6 frecce, ma fu catturato vivo. Tra i suoi uomini sopravvissero solo un cavaliere spagnolo e uno siciliano, feriti e dati per morti nel cumulo degli uccisi. (…) Le perdite furono enormi su ambedue i fronti. (…) Una grande galea veneziana fu abbordata e quasi sommersa dalla massa degli aggressori; il comandante fu ucciso, ma il suo segretario, per non cadere in mano ai nemici, diede fuoco alla santabarbara, facendo saltare in aria la nave e tutti coloro che erano a bordo. In un altro punto dello schieramento un capitano di artiglieria spagnolo, Federico Venusta, ferito alla mano da una granata, corse con un coltello da uno dei rematori, chiedendogli di amputargliela, ma costui svenne. Così Venusta se la staccò da solo, poi andò nelle stiva della galea e, infilato il moncherino nel corpo ancora caldo di un pollo appena sgozzato,lo assicurò con una fasciatura e tornò a combattere. Di fronte a tanto eroismo anche i sanguinari seguaci di Uluch Alì non potevano fare gran che. Da una parte le galee cristiane del centro si scagliavano su di loro senza pietà, dall’altra Gian Andrea Doria, coperto del sangue d’un soldato morto al suo fianco, infieriva alle spalle dello squadrone ottomano. (…) Con una mossa abile, per quanto a malincuore, Uluch Alì ritirò dal combattimento quel che restava della sua flotta: la battaglia, ne era certo, era ormai perduta. * (…) La battaglia di Lepanto, dal punto di vista strategico, non ebbe tuttavia risultati evidenti, e Cipro non fu riconquistata. (…) Ciononostante, nell’intangibile regno delle speranze e dei timori umani, la battaglia segnò un punto cruciale. Tutta la Cristianità europea provò un senso di sollievo, una nuova fiducia in se stessa.
Per la prima volta a memoria d’uomo i Turchi erano stati decisamente sconfitti e avevano dimostrato di essere, come ebbe a dire Colonna, “nient’altro che comuni mortali.” Venezia, che attendeva con ansia di conoscere l’esito della battaglia, esplose in un delirio di gioia quando, il 17 Ottobre, fu avvistata una galea che trascinava nell’acqua le bandiere turche conquistate, mentre l’equipaggio sfoggiava costumi ottomani strappati ai vinti. Le campane suonarono a distesa, furono accesi dei grandi falò e venne dato il via a una serie di festeggiamenti entusiastici: 99 poeti celebrarono la vittoria in maestosi (e ampollosi) versi; si coniarono monete commemorative e i pittori si affrettarono a immortalare l’evento su pareti e soffitti di Palazzo Ducale. Notte dopo notte la città si accendeva di mille luci e risuonava di musiche armoniose. La battaglia venne soprattutto considerata come la vittoria di Cristo su Mammona.
Papa Pio V, che considerava l’intero mondo cristiano in debito con don Giovanni d’Austria, accolse la notizia con un significativo versetto della Bibbia: “E venne un uomo inviato dal Signore, e il suo nome era Giovanni”. (Colin Thubron, I Veneziani, Collana I Grandi Navigatori, CDE Gruppo Mondadori, Milano 1987)
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Veniamo ora ad affrontare, in conclusione, la questione del rapporto fra l’epopea cavalleresca fin qui descritta e la nostra attuale realtà contemporanea, intesa sia a livello esteriore che interiore: senza questo confronto, infatti, la nostra analisi e la nostra ricerca avrebbero un carattere esclusivamente culturale, mentre quel che a noi preme indagare in questa sede è il significato, il valore, il messaggio simbolico e spirituale contenuto per noi in queste antiche vicende del passato. Cosa ci racconta dunque quest’epopea dei Cavalieri di Malta, volendola prendere come metafora ed esempio per il nostro tempo? Innanzitutto va tenuta presente l’origine della loro vocazione di “Ospitalieri”, dediti alla cura dei malati e dei feriti in battaglia, come se non si potesse prescindere, nella costruzione di qualcosa di stabile, profondo e duraturo nel tempo, dalla cura delle nostre e delle altrui ferite e infermità, al contempo fisiche e psichiche, interiori ed esteriori, presenti e passate: il nucleo iniziale dei Cavalieri di Malta, quello che successivamente diverrà l’Ordine militare più forte, coraggioso e politicamente influente di tutta la Cristianità occidentale, era infatti dedicato, in origine, interamente ed esclusivamente alla cura degli infermi e dei feriti in Terrasanta. Così come il “lato Ombra” dei Cavalieri Templari, sancito nell’atto stesso di fondazione della loro Regola, prevedeva l’arruolamento tra le loro fila degli “esclusi di Israele”, cioè criminali, delinquenti e malfattori di ogni risma (opportunamente redenti), integrandoli in un insieme più ampio dove nobiltà e servitù, aristocrazia e plebe, ortodossia e devianza si fondevano nella comune militanza cristiana, allo stesso modo ritroviamo anche nell’atto di fondazione dei Cavalieri di Malta, e ancor più al giorno d’oggi, una vocazione assistenziale rivolta verso i più deboli, i più umili, gli sconfitti di sempre, che testimonia l’esigenza e la necessità cristiana di coniugare militarismo e assistenza, servizio e difesa, cura del corpo e dell’anima.
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Un altro aspetto non secondario da analizzare è messo in luce da quel lato oscuro di questi aristocratici “guerrieri di Dio” che si è manifestato ed espresso, ad esempio, nella “guerra da corsa”, da essi compiuta sui mari ai danni dei Turchi: infatti i Cavalieri di Malta furono per la maggior parte del tempo dei veri corsari cristiani, dotati di precise istruzioni superiori e di una patente ecclesiastica, che praticavano la guerra all’infedele attraverso la pirateria, utilizzando al pari del nemico anche la cattura e la riduzione in schiavitù, nonché la richiesta d’ingenti riscatti per il rilascio dei prigionieri. Di conseguenza assistiamo, in questo caso, a uno strano paradosso, e cioè la compresenza, nella stessa figura, del nobile aristocratico dedito alla coltivazione delle virtù cristiane e del corsaro intrepido e aggressivo anche al di fuori della legalità, quasi a significare che, fuori di ogni stucchevole moralismo – peraltro particolarmente diffuso in ambito cattolico -, “il diavolo e l’acqua santa” sono in realtà una cosa sola e possono tranquillamente coesistere nella stessa persona.
Se ammettiamo che “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi” (Von Klausewitz), assistiamo dunque a una pratica – e quindi a una “teoria” che c’è a monte – decisamente interessante e originale, sulla quale val la pena riflettere: la virtù cristiana non sembra infatti essere poi molto diversa da quella (apparentemente) “anticristiana”, il che significa che in tutta questa storia di eccidi e conflitti tremendi fra fedeli e infedeli in realtà gli opposti si riuniscono in una superiore unità che li trascende entrambi. Una vera anticipazione indiretta, e sperimentata sul campo, della “ragione dialettica” hegeliana… Nell’opposizione fra Cavalieri e Ottomani e nella lettura simbolica di tale vicenda, ecco testimoniata una caratteristica molto interessante di quest’antica epopea di “cappa e spada”, caratteristica peculiare, d’altra parte, di tutta la lunga e tormentata “Età dei Pesci”, che va dalla nascita di Cristo fino ai giorni nostri, il cui costante dualismo pervade quasi due millenni di storia: tesi e antitesi, bene e male, verità e menzogna, tipiche di questa lunga età della coscienza umana, si contrappongono infatti e si combattono in una lotta mortale, che nel tentativo strenuo di sconfiggere il male e affermare il bene, di eliminare il nemico e il suo mondo interiore (insieme a quello esteriore), non fa che arrivare in definitiva alla cancellazione di entrambi.
Come dire, insomma, che Cavalieri e Ottomani vanno a braccetto, mercè la loro medesima lotta e opposizione reciproca, non intesa però come un compromesso buonista, dove ogni cosa svanisce in una nebbia regressiva della coscienza, bensì in un’unità superiore che le trascende entrambe, dando vita così a una nuova realtà, psichica e fisica allo stesso tempo.
E questa del resto è la superiore “morale dialettica” da trarre da questa vicenda: la tesi scompare nella sua antitesi e viene da questa annullata, ma anche l’antitesi scompare a sua volta, cancellata dalla sintesi finale, che non è in realtà un compromesso o una pacificazione à la page (come troppo spesso si crede), ma la dissoluzione effettiva dell’antitesi stessa, annullata proprio dalla sua natura dualistica di contrapposizione feroce rispetto alla tesi. “Ciò che si fa per amore è sempre al di là del bene e del male”, diceva Nietzsche, e a ragione: e lo stesso potrebbe valere anche per “ciò che si fa per odio”, perché chi non sa vivere l’uno è incapace di vivere anche l’altro e si aggira impotente, pavido e senza identità, in un’esistenza beffarda che sempre gli scappa di mano.
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Di conseguenza possiamo dire, in conclusione, che dietro tutta questa serie infinita di guerre, scontri e conflitti tremendi che segnano l’intero corso della storia umana, e segnatamente lo scontro feroce della Cristianità contro il Turco, vi sono nascosti una tensione e un anelito profondi verso l’integrazione dialettica del proprio opposto, un desiderio inconscio di pace e di unità, un tentativo di dare vita a un tertium – di natura essenzialmente alchimistica – che riesca a unire e amalgamare fra loro questi due mondi fisici e psichici (nonché spirituali) della coscienza umana, apparentemente distanti e distinti fra loro, nonché irrimediabilmente e definitivamente inconciliabili, almeno in apparenza. Il che equivale a dire, fuor di metafora, che “chi disprezza compra”, e che la guerra intesa come via di realizzazione interiore può certamente prescindere da valutazioni oggettive di bene e di male, che lasciano il tempo che trovano e sono sempre più che mai relative a un determinato contesto contingente, ma non può assolutamente esimersi dal testimoniare sub specie aeternitatis l’esigenza psichica, individuale e collettiva allo stesso tempo, dell’integrazione dell’Ombra – con ciò intendendo non solo lo sconosciuto e ignoto “lato B” psicologico della personalità individuale, ma anche e soprattutto quel vero e proprio “Lato Oscuro della Forza”, al contempo soggettivo e oggettivo, che ci determina e ci condiziona a livello inconsapevole, e con noi l’intero creato.
Niente più del concetto di Ombra – anzi, del vero e proprio archetipo ancestrale che in esso si cela – può infatti aiutarci a comprendere l’esigenza assoluta di integrazione dei contrari, considerata come scopo primario della vita dello spirito, che è nascosta nell’esistenza psichica e fisica dell’intera storia umana e universale: niente più dell’idea di conflitto, e della sua accettazione matura e consapevole, può guidarci in salvo fuori dalle secche e dalle paludi dei luoghi comuni e dei pressapochismi d’accatto, di cui siamo pieni all’inverosimile in quest’epoca barbara di banalità a buon mercato:
“Perché vi è un conflitto prima del Conflitto e vi sono misteri prima dei Misteri. Che questo esempio basti dunque a quelli che hanno orecchie, perché non si richiede svelare il Mistero, ma solo indicare quanto è sufficiente alla mente di coloro che sono partecipi alla conoscenza”.(Clemente Alessandrino)
Autore articolo: Pierluigi Gallo Ziffer
Articolo pubblicato su: Simmetria.org