Guida per amministratori che resistono e giovani che non si arrendono

Sette considerazioni preliminari

Prima considerazione. Le risorse, anche quelle pubbliche, non sono più illimitate e a fronte dei bisogni crescenti, si rivelano sempre meno e sempre più scarse. La forbice si divarica, le istituzioni, specie gli enti locali, si sentono impotenti e frustrate. Sempre più marginali e inutili. Fanno acqua ma la realtà, con tutto il suo carico di contraddizioni, ormai scorre impetuosa, a prescindere dalla capacità di risposta della politica.

Seconda considerazione. Uno tsunami sta sconquassando il mondo ma anche il nostro modo di vedere le cose. E tra queste la vecchia idea di politica, fondata sulla convinzione che il monopolio delle risorse pubbliche sia nelle mani delle istituzioni e, dunque, della politica. I cittadini, spettatori. Basta la loro delega e per il resto ben saldo vige il mito dell’autosufficienza della politica rispetto ai bisogni sociali. Il senso della comunicazione simbolica della vecchia politica è: statevene tranquilli, ci pensiamo noi, bastiamo noi. La cultura diffusa considera la delega come fondamento della cittadinanza passiva.

Terza considerazione. Rendere passivi i cittadini, significa, tra le altre cose, dissipare – nel senso di sprecare, disperdere, dilapidare –anche il loro potenziale di risorse ricco di conoscenze, competenze, tempo, passione ecc. Se l’azione pubblica è sotto sequestro delle istituzioni e, dunque, della politica, allora i cittadini stiano quieti, pensino a se stessi, si facciano i fatti loro. Tra l’altro meno pensano agli altri, meno sviluppano una coscienza sociale, più sono malleabili come individui consumatori o, come ripeterebbe Leonardo Becchetti, come idioti sociali. Saranno anche il sale della democrazia, ma le domande impertinenti di solito fanno male al potere.

Quarta considerazione. La crisi inceppa il meccanismo. Fa saltare il banco, il vecchio gioco non funziona più, l’ingranaggio si ingrippa. Dal monopolio siamo rapidamente passati all’irrilevanza dell’azione pubblica. Ecco che la crisi, con la sua sequenza impietosa di blocchi, strappi e bruschi cambi di strada, si trasforma in una straordinaria opportunità per aguzzare l’ingegno. Di fronte alle difficoltà due sono le reazioni possibili: o la paralisi della paura oppure l’attivazione di quel deposito di risorse, che giace riposto nella coscienza individuale come in quella comunitaria, dal quale, come la vita insegna nelle situazioni di maggiore difficoltà, si può sempre attingere un carico decisivo di energia e creatività. Nelle crisi nascono esperienze sociali inedite, prendono forma idee eretiche, penetrano nei nostri sguardi pensieri divergenti. Insomma, cambia il punto di osservazione.

Quinta considerazioneDi fronte alle difficoltà di solito si risponde con due azioni. La prima è guardarsi attorno, vedere quello che c’è, le risorse di cui disponiamo, le cose che abbiamo, quello che si può fare. E questa è già una rivoluzione, perché nel tempo dell’abbondanza e della passività, ogni alibi era buono per non fare nulla, ogni avversità era legittima per esercitarsi sulle colpe degli altri, ogni privazione costituiva un alibi eccellente per l’immobilismo, ogni ostacolo una barriera insormontabile per lasciare le cose come stavano. Oggi, invece, nel tempo della scarsità stiamo capendo, un po’ tutti, ma specialmente i meridionali, che nessuna recriminazione è fertile: dal lamento non nasce più nulla. Il lamento è ormai padre sterile solo della rassegnazione. Le lacrime del lamento non non riempiono più il pozzo dei finanziamenti pubblici e degli interventi straordinari. Saper piangere non è più la competenza indispensabile per alimentare il flusso dei trasferimenti. Il tempo dello spreco è finito insieme a quello dell’abbondanza. Il cambiamento accade solo quando ciascuno si concepisce come parte della soluzione e non solo come crosta del problema.

Oltre le risorse del territorio e della storia, bisogna liberare le risorse della comunità. Scatenare l’ingegno collettivo, creare contesti favorevoli all’attivazione diffusa, mettere al centro il potenziale di cambiamento delle persone. E così la accadono che persino gli scarti possono diventare risorse pregiate. Che il centro storico sgarrupato di Favara possa trasformarsi in una cellula vitale della ricerca sociale e culturale e che la lana, da rifiuto speciale, si riveli, nuovamente, fibra preziosa di una filiera tessile di alta qualità. L’elenco sarebbe lunghissimo. Togliete il tappo alle energie sociali e lasciatevi sorprendere.

Sesta considerazione. Sta avvenendo un cambio epocale che rivoluziona due stereotipi fondamentali: da un lato l’idea di sviluppo, dall’altra la relazione tra le istituzioni e i cittadini. Nel tempo dell’abbondanzale risorse da attivare per promuovere lo sviluppo sono decise da altri e altrove. Se il siderurgico dell’Italsider (oggi Ilva) va a Taranto non lo decidono i tarantini e la scelta non ha nulla a che fare con le risorse e la vocazione magnogreca della città dei due mari. Le risorse per generare oltre 20.000 posti di lavoro per un lungo cinquantennio arrivano da fuori, per decisione unilaterale della politica, e, comunque, non hanno nulla a che fare con quelle del territorio. Piovono generose e abbondanti (per poi devastare l’ambiente, ma questo è un altro discorso), e in modo puntuale, qualche volta grazie a un pensiero strategico, più spesso a seguito della forza di rappresentanza della politica del territorio.

Nel tempo della scarsitànon funziona più così e lo sviluppo può derivare solo dalla capacità di mettere a valore le risorse di cui un territorio dispone: Taranto e la sua storia, il suo mare, i suoi beni archeologici e architettonici ma anche anche il porto, il retroporto, le infrastrutture della logistica, l’avionica. Nel tempo dell’abbondanza si faceva più leva sulle risorse esogene, nel tempo della scarsità si è costretti a far leva più sulle risorse endogene. Così lo sviluppo diventa anche sviluppo locale. Dipende anche da noi e non dagli altri. Certo che occorrono anche le politiche nazionali, e la sua capacità di agire sui gap delle infrastrutture e sulle condizioni di contesto, ma quello che accade dipende dalle comunità locali.

Come cambia la relazione tra istituzioni e cittadini? Semplicemente si ribalta. Copernicanamente si rovescia. Se la dinamica dello sviluppo, quello sociale come quello economico, procede dal basso e non viene stabilita dall’alto, allora improvvisamente le persone da comparse diventano protagoniste. Il messaggio subisce una mutazione violenta e per mettere in campo politiche pubbliche efficaci, le amministrazioni cominciano a dire ai propri cittadini: “ci aiutate, ce la date una mano?” Passare dal cittadino come impiccio al cittadino come leva dell’azione pubblica, è una bella rivoluzione. Che si tratti della riqualificazione di un spazio comunale o del recupero di un immobile vandalizzato o ancora dell’attivazione di un servizio per favorire l’aggregazione degli anziani o ancora per chiudere il ciclo dei rifiuti con una raccolta differenziata partecipata, beh, in tutti i casi ci sono loro al varco, i cittadini. Devi poter contare su cittadini che consapevolmente si danno da fare, entrano attivamente nello spazio pubblico e donano, in un nuovo spirito di comunità, il loro patrimonio di tempo, competenze e passione. Dalle istituzioni che diffidano dei cittadini a istituzioni che provano a generare il comune capitale di fiducia. Perché tu istituzione, se vuoi incidere, non puoi più trattarli con spocchia. Sono la tua risorsa essenziale, e potenzialmente rinnovabile. Senza questa dinamica di attivazione delle risorse diffuse della comunità, la politica, le istituzioni non vanno da nessuna parte. Semplicemente girano a vuoto.

Sesta considerazione. Se le risorse sono sempre più scarse e insufficienti per soddisfare da sole i bisogni sociali, come allocarle? Con un criterio generativo. Se chiedi una mano ai tuoi cittadini per risolvere un problema, allora le tue risorse devono funzionare come leva per generare le risorse sociali di tutti. Ogni delibera dovrebbe chiedersi non quante risorse “spende” ma quante ne genera, quante ne attiva. Dovremmo passare da un parametro distributivo a uno generativo. Non quanti soldi dai, ma quanto valore mobiliti. In fondo, nella raccolta differenziata porta a porta, il valore del servizio pubblico è una parte minima rispetto a quello prodotto dal tempo che tutti i cittadini donano con i loro piccoli gesti di casa nel tinello di casa. All’azione pubblica, ovvio, poi spetta di realizzare gli impianti di compostaggio, di biostabilizzazione, ecc.

Settima considerazione. Il circolo virtuoso delle politiche generative si attiva con una leva irrinunciabile, senza la quale nessun cambiamento può accadere: la fiducia. Senza una inedita relazione di fiducia tra cittadini e istituzioni, le politiche generative non sono possibili. E questo significa due cose essenziali, persino primordiali. La prima è che l’amministratore pubblico, se vuole innescare processi generativi, è condannato a far coincidere le cose che dice con quelle che fa. La seconda è che l’amministratore pubblico, come il decisore politico, devono essere consapevoli che bisogna cedere una parte del loro potere. Decidere insieme, cambiare insieme con cittadini comporta la rinuncia all’esercizio del potere gerarchico, discrezionale, dall’alto. Per alimentare la fiducia collettiva, l’amministratore pubblico deve agire più come un facilitatore sociale che come un membro della casta. Rinuncia al potere ma guadagna enorme potenzialità di cambiamento sociale.

Guida minima per politiche giovanili generative

I principi essenziali possono essere così riassunti:

1. Principio primo. I giovani sono una risorsa e non un problema. Al limite noi siamo il loro problema: la nostra organizzazione sociale e la nostra cultura restano inguaribilmente gerontocratiche, chiuse, egoiste, pigre e conformiste. Se non si rovescia l’approccio, meglio non provarci. Dunque, il messaggio non è “vi diamo una mano” ma “ci date una mano” a migliorare il mondo. Un’amministrazione che chiede, si chiede, piuttosto che dare.

2. Principio secondo. Nessun doppio gioco. Se si vogliono generare spazi inediti di protagonismo, i protagonisti non sono gli amministratori, ma i giovani. Le istituzioni stabiliscono il come (regole e procedure), i giovani s’inventano liberamente il cosa. Senza alcun freno alla creatività. Bando alle passerelle.

3. Principio terzo (per tanti la più dura). Si gioca solo a carte scoperte. E comunque non è un gioco sulle carte ma sulle cose. Per essere precisi è un gioco in cui l’amministrazione deve far coincidere le carte e le cose, quello che dice e quello che fa. Regole chiare e limpide, direttamente accessibili, senza tecnici o esperti, dichiarate prima, gli amici degli amici sono una categoria sconosciuta, risposte immediate, dialogo continuo, niente burocratese. Non si bleffa, insomma. Questa è roba per amministratori con le spalle larghe che sanno lottare.

4. Principio quarto. Se non siete disposti a camminare sul cornicione, lasciate stare. Senza sudare l’ebbrezza di processi creativi imprevedibili, spiazzanti, imbarazzanti e persino, in molti casi, incomprensibili, le politiche giovanili generative non si danno in natura. Più tranquillo organizzare la sagra del panino. Vi capiscono tutti e li fate contenti.

5. Principio quinto e ultimo (per il momento). Si seminano opportunità mettendo a disposizione risorse fisiche (spazi, immobili, ecc.) e risorse finanziarie (poche, comunque quelle che ci sono). Poi quello che accade non si controlla (tranne che per gli adempimenti amministrativi, ovvio). Le politiche mettono in circolo attrezzi, i giovani costruiscono cose, meglio attivano processi. Quello che accade non si può controllare, al massimo di può governare.

L’esperienza di Bollenti Spiriti

In Puglia è andata così, ma ciascuno si scriva come vuole la sua storia, unica e irripetibile. Le politiche generative, in fondo, sono come un abito sartoriale: ci vogliono estro e tecnica, gusto e abilità. Chiamammo Bollenti Spiriti il nostro programma per le politiche giovanili della Regione Puglia. Nacque nel 2005 intorno a un’idea guida: puntare sull’energia, la creatività e il talento dei giovani pugliesi come risorsa per la rinascita sociale, economica e culturale della regione.
Nel periodo 2006-15 Bollenti Spiriti ha messo in campo una serie di iniziative per promuovere la partecipazione dei giovani pugliesi in tutti gli ambiti della vita attiva.

Bollenti Spiriti oggi è una delle esperienze di innovazione nelle politiche pubbliche più note in Italia: ha ricevuto premi e riconoscimenti a livello nazionale e internazionale ed è stato presentato nei principali appuntamenti di dibattito e approfondimento sull’innovazione nella Pubblica Amministrazione, la promozione dell’imprenditorialità, la rigenerazione urbana e l’innovazione sociale. Prima del 2005, l’investimento della Regione Puglia sulle politiche giovanili era di 0 euro.

Autore articolo: Guglielmo Minervini

Articolo pubblicato su: “Archivio della Generatività Sociale” 

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