Leggo “Il senso dei luoghi, Memoria e Storia dei paesi abbandonati”, uno dei suoi libri più noti, edito da Donzelli. L’opera è complessa, una documentata mole di pagine che funge contemporaneamente da archivio storico, scavo e memoria, approdo sentimentale, ricerca di una poetica dei luoghi. Dove e quando nasce questo desiderio di esplorazione che sulla pagina disegna la forma del suo sguardo?
La prima idea di realizzare qualcosa di compiuto sulle rovine, sui ruderi, ma soprattutto sui paesi abbandonati nacque anni fa, all’imbrunire, in occasione di una visita alla vecchia Noto, distrutta dal terremoto del 1693. Quella sera avvertii un misto di sensazioni, tra la fascinazione, la paura, il senso del tempo che passa, insieme al presentimento che stesse per accadere qualcosa di misterioso. In seguito a questo episodio, decisi di mettere ordine a una serie di materiali, documenti, appunti che avevo iniziato ad elaborare sul tema dei paesi abbandonati già dall’inizio degli anni ottanta. A quei tempi, d’estate, si tenevano spesso delle feste tra le rovine degli antichi abitati. Persone che vi avevano vissuto e che poi se ne erano allontanate si riunivano in quei luoghi, magari insieme a figli, ai nipoti, alle nuove generazioni, per ricostruire un dialogo con il paese d’origine, intrecciando un legame affettivo tra la nostalgia e la consapevolezza che nulla sarebbe stato più come una volta. Questo pellegrinaggio festoso tra le rovine e questa sensibilità popolare per quello che era stato e non c’era più mi sembravano un fatto inedito nella cultura delsud e mi colpivano moltissimo. Da quel momento ho iniziato a seguire tutte le feste che si svolgevano nei paesi abbandonati tra la Calabria e il resto dell’Italia meridionale costruendomi una sorta di mappa e concentrandomi molto sulle storie di vita delle persone.
Mi affascina il culto della festa fugace che si consuma nell’arco di poche ore tra i ruderi. La natura effimera di questi eventi nascondeva forse la speranza di dare, per un movimento contrario, permanenza e continuità al ricordo del luogo amato, conservandolo per un lungo tempo, anche dopo lo spegnersi dei bagliori…
Sì, proprio così. Tornare per celebrare un rito significava in qualche modo risacralizzare quel luogo, rifondarlo. Prendere parte all’evento, mangiare lì equivaleva a un banchettare con i morti, a livello simbolico ristabilire un contatto tra quelli che non c’erano più e quelli che erano andati via, entrambi diversamente defunti. Ed era molto interessante osservare quanto, almeno per un attimo e nella fugacità di un tempo breve, quel luogo rinascesse negli occhi di chi era andato via o di chi era alla ricerca di un senso ulteriore, di un altrove che si era forse lasciato alle spalle.
C’è poi il caso dei paesi doppi della Calabria, nati per sostituire quelli distrutti a seguito di alluvioni o terremoti: potremmo definirli non luoghi, posti senza anima, privi inizialmente dei tradizionali punti di riferimento. Anche a causa della loro identità ricostruita artificialmente, molte persone desideravano occasionalmente radunarsi nel luogo d’origine, quasi a segnalare una critica o l’insoddisfazione verso i loro nuovi centri abitati.
Ci sono anche alcuni elementi di storia autobiografica legati alle rovine che hanno condizionato e diretto i miei studi. Da bambino, negli anni cinquanta, ho visto progressivamente spopolarsi un mondo che oggi non c’è più. In molti libri ho scritto delle fughe continue di quel tempo, di partenze di massa vissute come dei funerali, di case che chiudevano irrimediabilmente le loro porte. Inizialmente, rispetto ai miei coetanei che se ne andavano, mi sentivo un superstite, un sopravvissuto, ma ero convinto che tutti sarebbero tornati, che le vie si sarebbero riempite di nuova vita. Mi sbagliavo. Lentamente e progressivamente scoprii che quanto era accaduto era avvenuto per sempre, che gli amici che tornavano lo facevano ormai, se pure, solo per l’estate e che si era creata una frattura definitiva. Per loro non si sarebbe più ricostruito il passato.
Ho assistito allo svuotamento del mio paese. Nella strada in cui vivo si facevano delle allegre tavolate che ancora ricordo, oggi la stessa via è deserta, abitata da pochissime persone, perlopiù anziane. Del resto, è una situazione comune a tutto l’Appennino calabrese e italiano…
Di fronte a tutto questo ci si sente in esilio. Restare allora diventa una paradossale forma di spaesamento, di viaggio estremo. Si è costretti ad assistere a grandi stravolgimenti, pur rimanendo fermi in un posto.
È cambiato anche il rapporto con la natura circostante e i campi. Solo gruppi marginali di appassionati che riscoprono la terra o che si inventano nuovi mestieri stabiliscono un legame con l’esterno del paese, le campagne…
Un tempo il rapporto coi luoghi era carico di significato. La relazione tra la terra e l’umano si spingeva ben oltre oltre un’idea di opportunismo. C’erano legami silenziosi, fatti di intenti anche sentimentali, religiosi, simbolici, ritualistici.
Sì, a questo proposito mi ritorna in mente un posto familiare in cui mi sono fermato l’altra sera, un luogo pieno di pioppi giganteschi. In un attimo sono stato colpito dalla loro ombra: lunga, lontana nel tempo e nello spazio. Quell’ombra non parlava più al presente, era la stessa di tanti anni fa, quando da ragazzo mi fermavo lì dopo il mare per rinfrescarmi o per chiacchierare col mio amico Vincenzo tornato dal Canada.
I luoghi insomma sono una sedimentazione di storie, memorie, vissuti che ti fanno pensare e ripensare alla vita. Questa dimensione verticale dell’esistenza mi pare si stia perdendo. Certamente la memoria o il ricordare troppo non devono cadere nei facili sentimentalismi, ma avvertire una nostalgia produttiva, affrontare il dolore verso il passato scomparso cercando di trasformarlo nel presente per ritrovare la strada, questo sì che può diventare fonte di energia.
Forse è anche giunto il momento di interrogarsi sul perché abbiamo superato il limite e se non sia il caso di fermarsi un po’ per guardarsi indietro e recuperare un passato dalle potenzialità ancora inespresse.
I paesi abbandonati sono animati da un perenne stato di imminenza in cui agiscono testimonianza stratificata, svelamento dei sensi e insieme ricostruzione storica. Ma sono anche una soglia, varcata la quale una lingua immaginifica inizia ad esprimersi. È allora che realtà e mito si uniscono, generano un’oralità invisibile, che investe gli spazi e li potenzia. È lo stato della rovina ad amplificare questo tipo di narrazione?
Certamente. Delle grandi rovine, le più famose e note, abbiamo informazioni, storie documentate e accertate. Delle piccole rovine, invece – penso alle case di pietra ricoperte dal fogliame, avvolte dagli alberi di fico – disponiamo di uno spazio inedito, ampio, da cui trarre un inventario di immagini nuovamente narranti. Questa opportunità di creazione diventa occasione per riflettere sul proprio altrove. In questo senso la rovina non si fa mitologia, ma mito di un tempo di cui possiamo sentire nostalgia. La rovina diventa mito di un tempo fuori dal tempo.
Le storie, come la poesia, forse hanno bisogno di un’estetica dell’assenza per nascere. Allora l’appena abbozzato o il sottratto della rovina agiscono nell’immaginazione delle persone, rassicurandole allo stesso tempo…
Sì, le rovine affascinano per sottrazione, allo stesso tempo spingono ad addizionare. Da un vuoto nascono tanti pieni possibili. In questo senso il rapporto con la rovina deve diventare propositivo e fondativo.
I paesi del Mediterraneo, compresi quelli della sua Calabria, sono scanditi da uno stile di vita che risente del passato, identificato e rievocato in una forma in cui ancora oggi le nuove generazioni si riconoscono. Talvolta, però, la sua risonanza è eccessiva, rischia di franare in una nostalgia per l’anteriore e provocare una stagnazione sociale. Come si possono conciliare l’affetto per i luoghi e la cultura del presente?
L’affetto per i luoghi ispira un tempo diverso, verticale, non ordinario e non omologato. Proprio per questo le nuove generazioni possono recuperare ciò che gli antenati hanno lasciato: scrigni di saperi e sapienza da custodire e rielaborare nel presente non nella direzione di un collezionismo passivo ma all’insegna di un “gioco” da riorganizzare con i materiali ereditati, al fine di scoprire un nuovo senso della comunità, tenendo conto di tutti i cambiamenti che si sono verificati nel frattempo. Si può fare insomma un buon uso della nostalgia: accarezzarla con affetto, amarla nella misura in cui ti permette di interpretare il presente.
Si tende a scegliere un luogo per la vita, eppure l’unicità di questa scelta può frastornare e non appagare. Può accadere, allora, di vagare come nomadi tra patrie e patrie. Ma è possibile dilapidare la propria identità dividendosi tra luoghi e luoghi? Forse l’essere umano ha bisogno di un’unica casa da cui poi guardare alle altre…
Non penso che si possano avere molteplici identità o posti di riferimento. Io credo “alvaraniamente”, che ogni inveramento ed ogni cosa tra le più importanti dell’esistenza inizino ad apparire già nei primi anni dell’infanzia. Penso che il luogo di appartenenza ineludibile sia assolutamente quello in cui sei nato e cresciuto, quello in cui hai mangiato per la prima volta o ti sei innamorato per la prima volta. Si può fuggire dal luogo d’origine, ma alla fine del percorso comprendi quanto la strada compiuta ti abbia riportato al punto di partenza.
Certamente si può abitare bene in altri luoghi, ma forse ciò dipende dall’avere un punto di riferimento sempre presente nella mente o, come diceva Ernesto De Martino parlando di Albino Pierro, un “villaggio nella memoria”. A questo proposito mi ha colpito molto la vicenda di Cavallerizzo, un paese calabro-arbëreshe, franato nel 2005 senza mietere vittime fortunatamente. A seguito di quello sfortunato evento, molti dei suoi abitanti espressero la volontà di spostarsi, altri di restare. Da subito si creò una prima frattura tra diversi modi di leggere e interpretare criticamente le mutazioni del luogo. A un certo punto fui impressionato dal fatto che tra chi non voleva ci si spostasse c’erano gli emigrati, quelli che da decenni vivevano ormai in Inghilterra o negli Stati Uniti, che non avevano più casa a Cavallerizzo e che non sarebbero di certo più tornati. Cosa era accaduto a queste persone? Probabilmente l’idea di perdere il loro luogo di origine li destabilizzava, li metteva in crisi, faceva loro perdere un orientamento rassicurante che, seppur idealmente, era di conforto alla distanza geografica.
Questo conferma l’idea che avere delle radici, custodirle nella memoria o anche solo sapere di avere la possibilità di ritrovarle fa parte di una naturale e comprensibile destinazione umana.
Nel suo libro racconta la storia di una donna di Melito rapita dai Turchi. Leggende intorno a giovani strappate alla propria casa e condotte in luoghi esotici ritornano in molti paesi del sud. Letto trasversalmente, questo ratto drammatico attinge alla fonte di una poetica dell’immagine a mio avviso potentissima: la costrizione e l’allontanamento dalla tenera estasi della giovinezza preparano al nostos che riaffiora su una fisionomia ormai rovinata dal tempo. Non sono forse gli estremi che, tra nascita e morte, esprimono il senso della vita?
Il motivo ricorrente del ratto costituisce un terrore storico non solo per le popolazioni dell’Italia meridionale, ma anche per quelle di tutta l’Italia costiera. La paura dei Turchi resta fino agli inizi dell’Ottocento. Molti stornelli e canzoni popolari ce lo ricordano.
Mi ritorna alla mente una storia raccontata da Corrado Alvaro a proposito di una nobildonna bellissima, rimasta vedova, che per non finire in mano ai Turchi si suicida o, ancora, la leggenda di Uluccialì, bambino rapito dai Turchi che diventerà capo della loro flotta e quando tornerà dalla madre sarà rinnegato perché reo di di avere abbracciato la fede nemica…
In queste narrazioni di vita rubata, cancellata o sospesa, si osserva un momento di rigenerazione e di rifondazione che racconta la dialettica tra la vita e la morte e che diviene centrale nella trasmissione della cultura orale popolare.
Queste storie, così evocative, sembrano suggerire che per rifondare un posto forse bisogna allontanarsene o lasciarsi sottoporre alle “violenze” della vita. I luoghi chiedono anche questo? Di essere, cioè, rivissuti alla luce di un cammino di formazione?
Sicuramente nella nostra cultura sono innumerevoli i richiami ai temi dell’oscurità, alle figure dell’ignoto, alle madonne nere e al sottoterra. Del resto, anche nelle società tradizionali le persone subivano dei riti di iniziazione fatti di violenze fisiche e psichiche terribili per garantirsi una strada di crescita e introduzione all’adultità. In qualche modo, questi passaggi, autoperpretati o indotti, reali o leggendari, permettevano di istituire una scrittura archetipica delle tradizioni e diventare stili di pensiero e di vita.
In L’Estate a Algeri, Albert Camus scrive che “segno della giovinezza è forse una magnifica vocazione alle facili felicità” e che a Belcourt “ci si sposa giovani. Si comincia a lavorare molto presto e si esaurisce in dieci anni l’esperienza di una vita umana”. Scrive anche che certi paesi del Mediterraneo sono generosi di spreco, una profusione di sensi che in qualche modo sazia precocemente e toglie tutto subito. È forse una riflessione accomunabile ai paesi del nostro Meridione? Esiste, secondo lei, un’eccedenza espressiva che i luoghi o i paesaggi comunicano e che giunge ad influenzare i ritmi della vita stessa?
Credo che l’eccesso di rapporti che viviamo nei paesi del Mediterraneo non esista nelle grandi città. Personalmente conosco moltissime persone nel mio piccolo paese calabrese; partecipo a numerosi matrimoni, funerali, occasioni di aggregazione, scambio, confronto; prendo parte alla vita amministrativa e pubblica. Questa intensità di azioni e sentimenti non esiste nei grossi centri abitati.
Gli abitanti del Mediterraneo sono eccessivi, persino nei mutamenti di umore o nei legami amorosi. Talvolta i dialoghi con le persone conosciute non si interrompono mai, perdurano negli anni, anche quando non c’è più occasione di vedersi dal vero. Una dialettica invisibile continua ad agire nel tempo e nello spazio: in questo senso, i tramonti lunghi, il mare e la sua costa, le distese di alberi influiscono, sono degli anelli di congiunzione, riportano a galla sapori, odori, nutrimenti dello spirito che non smettono di riecheggiare e di interrogare.
Come lei stesso scrive, esiste una nostalgia dell’altrove: quella di chi non parte e vede gli altri partire. Un punto di vista diverso, altrettanto carico di significato. Cosa significa oggi restare?
La nostalgia dell’altrove l’ho vissuta sulla mia pelle, da bambino, quando vedevo i compagni partire per il Canada e mi sentivo quasi deprivato di quell’andare. Infatti, idealmente partivo con loro. Mio padre, che lavorava a Toronto, l’ho visto per la prima volta a otto anni. Prima lo conoscevo solo attraverso delle foto. Toronto è stata per molto tempo una terra di continuità col mio paese, quell’altrove che immaginavo e dentro il quale mi perdevo.
Nostalgia dell’altrove era anche nelle donne con cui sono cresciuto, nelle storie che mi raccontavano. Grazie a loro sono stato iniziato al fantastico, al mistero, al magico.
Alla luce di tutto questo, mi verrebbe da osservare che la nostalgia più tremenda è forse quella di chi rimane e aspetta. È l’attesa di Penelope o è stata quella di mia madre che ha dovuto sopperire all’assenza di suo marito, riorganizzando nuove strategie di vita, sostituendosi alla figura maschile. In questa lacerazione di mondi, in questa frammentazione o nel determinarsi di schegge e segmenti resta più spaesato e fuori luogo chi non va via. Il mio restare, che ho definito nel tempo “restanza”, ha a che fare con altre parole, come lontananza, erranza, ma è pronunciato con riferimento alla dinamicità e alla mobilità, a qualcosa che sta avvenendo. Restanza non è essere rimasto ma è la costruzione consapevole e responsabile del restare. Restare significa trasformare e cambiare il mondo, ricercare e tentare di raggiungere nuovi orizzonti di senso.
Grazie, Professore.
Grazie a lei per avere dato, con grande sensibilità, forma nuova ai miei pensieri e alle mie riflessioni.
Intervista a cura di: Carla Saracino
Fonte: monolithvolume.com